Dove comincia l'Appennino

Io parto per l'America

I canti dell'emigrazione dall'epos tradizionale al sentimentalismo mediatico

Il fenomeno dell'emigrazione di massa che, a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, ha interessato l'Italia al pari di altri paesi europei, viene generalmente fatto risalire dagli storici alla crescente pressione demografica, indotta dalle migliorate condizioni sanitarie, igieniche ed alimentari che diminuirono la mortalità infantile, ma non furono tali da debellare le condizioni di povertà estrema nelle campagne, al contrario aggravate dall'aumento della popolazione.

L'eccezionale ondata migratoria che mosse dal continente europeo verso, in primo luogo, le Americhe e secondariamente l'Australia, è valutata, dal 1850 al 1941, in oltre 40 milioni di persone, oltre la metà delle quali dirette verso gli Stati Uniti. L'emigrazione italiana fu in crescita costante fino alla I guerra mondiale. Negli anni 1876-1900 espatriarono mediamente 210.000 individui. Nel periodo dal 1900 al 1913 affrontarono il lungo e rischioso viaggio oltre 600.000 persone in media ogni anno [I percorsi della storia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1997].

Se i dati sopra riportati restituiscono l'oggettività del fenomeno dell'emigrazione di massa, la sua realtà umana è però costituita dalle innumerevoli storie individuali, ognuna diversa ed unica, per lo più disperse nella dimenticanza di una labile memoria storica collettiva, più raramente, ma a maggior ragione valorosamente, fermate in tracce documentarie come in frammenti di un racconto inesausto. Al pari di ogni grande fenomeno storico che ha interessato il mondo popolare, anche l'emigrazione verso le Americhe fu assunta a tema di numerosi canti fioriti spontaneamente dal bisogno del popolo di esprimere i sentimenti vari e contrastanti suscitati dall'esperienza drammatica del distacco dalla propria terra, del viaggio verso luoghi la cui stessa collocazione geografica era per i più qualcosa di vago e quasi irreale.

È il grande tema della partenza, della rottura dei vincoli sociali e psicologici che legano il contadino al suo luogo d'origine, ma che non sono mai stati, in verità, vincoli indiscussi, giacché il mondo contadino è stato, da sempre, animato da slanci verso l'altrove, derivanti, come causa storica e immediata, da fattori economici, ma che si sostanziavano di istanze psicologiche radicate nel profondo dell'animo umano. Movimenti ambivalenti, nostalgia per il non conosciuto, per luoghi liberi dall'ossessiva ripetitività del quotidiano scandito da stagioni, lavoro, ritualità sempre uguali ad ogni volger d'anno.

Difficile stabilire con certezza sufficiente quale fosse la mobilità delle popolazioni montanare delle valli delle Quattro Province durante "il lungo, lunghissimo Medioevo, le cui strutture fondamentali evolvono solo con grande lentezza dal secolo III fino alla metà del XIX", secondo la definizione proposta da Jacques Le Goff, che ci sembra particolarmente veritiera per il mondo contadino e a maggior ragione per quello delle montagne [J. Le Goff, L'immaginario medievale, Mondadori 1993, p. XV-XXII].

Sappiamo invece per certo che un primo massiccio flusso migratorio fu attivato dal richiamo dello sviluppo agricolo delle aree delle bassa Lombardia (già da metà Ottocento) e del Vercellese e Novarese, in modo particolare dopo l'apertura nel 1866 del Canale Cavour, con i suoi 82 chilometri di canali irrigui [F. Castelli, E. Jona, A. Lovatto, Senti le rane che cantano, Donzelli, Roma 2005, p. 3-18]. Come è noto, il viaggio verso le pianure irrigue e il periodo di permanenza lontano da casa (mediamente intorno al mese-40 giorni, ma a volte molto più lungo) divennero il soggetto di numerosi canti che andarono ad aggiungersi a quelli di origine più antica dei quali assunsero spesso linee melodiche e schemi narrativi. Benché non esclusivamente fenomeno femminile, la migrazione stagionale rimanda immediatamente ai canti delle mondine perché in questi sembra possibile riconoscere un repertorio omogeneo e in qualche misura identificabile con le lavoratrici dei risi.

Ben presto all'interno dei canti della monda fece la sua irruzione il canto politico di denuncia e di lotta, e con esso il canto tradizionale si combinò con le parole dei letterati che prestavano la loro ispirazione poetica alla causa del riscatto sociale, dell'opposizione al fascismo e del miglioramento delle condizioni di lavoro. Nacque così un fenomeno nuovo all'interno del mondo della canzone popolare di tradizione orale, anche se probabilmente non così nuovo, ma leggibile piuttosto come uno dei tanti momenti di commistione tra cultura accademica o semi-accademica e cultura contadina o popolare. Va detto che il canto di lotta, che interessò diffusamente i territori della pianura padana, rimase pressoché escluso dalle valli appenniniche, fatto riconducibile alla più volte rilevata estraneità culturale alle istanze di lotta sociale da parte del mondo contadino e pastorale montanaro. Furono invece i temi tradizionali dell'amore, della partenza, della lontananza e del ritorno a restare nella consuetudine canora delle genti appenniniche, quegli stessi temi che trovarono espressione estrema nel grande movimento migratorio verso le Americhe e nei canti che da esso germinarono.

Negli anni dal 1867 al 1901 partirono per le Americhe dal porto di Genova 1.922.968 persone. Moltissimi di loro – forse la maggior parte – non avevano mai visto il mare, molti vi persero la vita o non lo rividero mai più, perché non fecero mai ritorno a casa. Ancora, molte di queste persone conoscevano il mare solo per averlo immaginato nei versi di una canzone. Dobbiamo cercare di immaginare cosa potette significare per questi uomini di montagna passare decine di giorni in mezzo al mare, al di là delle condizioni di viaggio certo non confortevoli. Possiamo essere certi che, nel corso di queste traversate, questi uomini, trovandosi tra paesani o anche con emigranti provenienti da altre zone, cantassero. E che tra loro ci fosse qualcuno in grado di comporre versi, adattandoli da canti già noti, spesso antichi di secoli. Oppure che, al termine della traversata, ritrovandosi tra paesani nelle osterie, sorgesse spontaneo il desiderio di raccontare e immortalare la propria avventura in un canto da tramandare. Ed ecco affiorare i temi soliti della psicologia contadina, quelli già presenti negli antichi canti lirico-narrativi, ma ora attualizzati nell'esperienza del viaggio oltremare. La partenza, innanzitutto, e il conseguente abbandono di una persona cara, che in un diffusissimo canto, forse composto da strofe nate in momenti distinti e quindi variamente aggregate tra loro, suscita reazioni sentimentali opposte, ben esemplificative della molteplicità di stati d'animo che dovette accompagnare la scelta della partenza per le terre d'oltremare.


Io parto per l'America,
sposo un'americana,
addio bell'italiana,
non ti marito più!

L'anello che ti ho dato
l'ho messo sotto i piedi,
bella se non mi credi
te lo farò veder.

Te lo farò vedere,
te lo farò sentire,
io ti farò morire
dalla soddisfazion.

Io parto per l'America
sul lungo bastimento,
parto col cuor contento
di non vederti più.

E prima di partire
voglio fare un giro in piazza
se c'è qualche ragazza
che piangerà per me...

In piazza c'è nessuno,
c'è sol l'amante mia [la mamma mia],
io parto e vado via
dalla disperazion.

Nella prima parte del canto, non importa quanto corrotto ed incoerente (o forse proprio perché tale), emerge uno stato d'animo colmo di speranza, e alla prospettiva di novità e rottura con il passato si accompagna una sorta di esaltazione vitalistica che confonde passato e futuro. Vi leggiamo tutto il sentimento di eccitazione che doveva precedere quell'immensa avventura verso orizzonti ignoti oppure conosciuti solo attraverso il racconto di qualche parente da raggiungere di là dal mare.

Con lo stesso incipit si dipana la seconda parte del canto, che si vena di un senso di malinconia e si apre con un'immagine molto realistica, dove si materializza quel bastimento che diviene per l'emigrante qualcosa di finalmente reale, ma in fondo è lo stesso che ne "La fiöla d'un povr'om" (Nigra 50, Cattivo custode) reca in grembo il padre alla ricerca della figlia rapita dai "dragoni". Il topos immaginario dell'antica canzone si realizza nell'esperienza concreta e ne nasce un nuovo canto. Ma prima di affrontare il mare c'è tempo per un ultimo breve viaggio nel proprio microcosmo domestico, la piazza del paese dove l'amante è oramai solo una presenza vaga, un'ombra nel vuoto, quasi personificazione del sentimento di disperazione suscitato dalla partenza.

Un canto forse riconducibile al genere dello stranot, stornelli accompagnati o intervallati da un inserto musicale eseguito da piffero e fisarmonica (tirlingada); un canto di partenza, diviso in due parti che potrebbero essere anche due canti distinti e che si chiudono emblematicamente con due sentimenti opposti: "soddisfazione" e "disperazione", restituendo con pregnanza il contrasto di sentimenti che doveva caratterizzare lo stato d'animo del giovane che si accingeva a partire per le lontane "Meriche".

In talune versioni del canto, come in quella ancora oggi eseguita a Ferriere in val Nure, ad accompagnare con il pianto la partenza dell'emigrante non è più l'amante, ma la mamma. È presente il tema dell'abbandono della vecchia fidanzata per una nuova ragazza americana, simbolo di una rottura radicale con il passato che non cancella però la memoria conservata viva dall'anello della "bella italiana" e dal sacco da lei donato che farà da pastrano per il rigido inverno americano. Una terza versione proveniente da Sant'Ilario d'Enza (Reggio Emilia) introduce il punto di vista delle mogli degli emigranti, immaginate facili prede delle brame seduttive dei frati ai quali, secondo una diffusa opinione probabilmente ben fondata nella realtà, veniva attribuita una notevole intraprendenza nei confronti di vedovelle o mogli in assenza di marito.

Come è accaduto per ogni grande epopea musicale scaturita dal grembo della cultura popolare (si pensi ad esempio alla monda), anche il repertorio dei canti dell'emigrazione ha subito uno svilimento commerciale cui ha corrisposto uno scadimento nel valore espressivo e simbolico. Esempio fra i molti la famosa "Mamma mia dammi cento lire" che, nella versione più diffusa, insinua una morale didascalica alquanto melensa, volta all'espressione di un patetico nazional-popolare sottilmente funzionale alla trasmissione dei valori familisti dello status quo, in quel verso che recita "le parole della mamma dicon sempre la verità", facendo passare in secondo piano la forza profetica del verso originario "le parole della mamma sono venute la verità".

Mentre la madre del canto originario ha lo spessore tragico di un'antica profetessa inascoltata, la protagonista del canto più moderno è una mamma da nucleo famigliare anni Cinquanta, depositaria di saggezza quotidiana, perno della nuova famiglia ristretta, angelo di un focolare urbanizzato e non ancora attizzato dai venti dell'emancipazione. E nello stesso canto, nella sua versione commerciale, assistiamo alla scomparsa del più struggente dei versi del canto originario, quello che descrive, con una commistione surreale di realismo e lirismo onirico che è propria della sensibilità contadina arcaica, il dissolvimento del corpo e delle vesti della fanciulla naufraga, riprendendo un tema che già fu del canto matrice, la "Maledizione della madre", canto nel quale risuona la cupezza di vincoli e tabù ancestrali. In quel canto antico era l'impazienza del pretendente o della fanciulla stessa che, precorrendo il tempo fatalmente determinato del distacco della figlia dal grembo materno, suscitava la maledizione della madre e la successiva disgrazia. Nel canto d'emigrazione originario ancora traluce la nota della "maledizione materna" (giacché il confine tra profezia e maledizione è labile), come pure l'infrazione di una norma sociale, quella che sancisce l'unità del gruppo famigliare e il suo legame con la terra d'appartenenza.

A questi e consimili canti va riconosciuto un carattere di originarietà e immediatezza che si perderà quando l'epopea migratoria comincerà ad essere sottoposta alle categorie del patetico proprie di una cultura popolare non più di tradizione, ma influenzata pesantemente dalla letteratura semi-colta e già assunta ad oggetto di spettacolarizzazione, complice la diffusione dei mass-media, la radio e la stampa prima, e quindi, devastante, la televisione.

A metà strada tra il canto di matrice tradizionale e quello scaturito dalla penna più o meno felice di un letterato o di un autore di canzonette commerciali, si colloca la scrittura del cantastorie, figura di intellettuale popolare che attinge ai registri letterari colti esasperandone taluni caratteri espressivi, a volte per insipienza altre volte per intenzione, nell'uno e nell'altro caso quasi sempre guadagnando in efficacia e densità di significato rispetto al testo di riferimento, nello stesso modo in cui sintassi e verbi scorretti e parole contaminate da influssi dialettali o di soggiacenti ed inconsce para-etimologie, oltre ad essere sicura prova dell'origine semi-colta del canto, ne accrescono il valore comunicativo piegando la regola al bisogno di immediatezza, efficacia espressiva e pregnanza di senso.

Alla creatività di un cantastorie è probabilmente riconducibile la ballata che narra del tragico naufragio del piroscafo italiano Sirio, avvenuto il 4 agosto del 1906 contro le scogliere spagnole di Capo Palos. È un testo caratterizzato da coerenza narrativa e forza evocativa, imperniato su poche ma potenti immagini di sicura suggestione. È evidente l'attenzione per il pubblico delle piazze di villaggi o città, un proletariato ancora indenne dagli effetti dei mezzi di comunicazione di massa e per il quale la voce del cantastorie rappresentava spesso il solo canale di informazione sui fatti del mondo, e comunque, sempre, il più efficace, suggestivo e ben accetto. Se anche per quella parte di proletariato raggiunto da una sommaria alfabetizzazione la lettura di un giornale rimaneva impresa faticosa, e la radio strumento raro e in possesso di pochi, il cantastorie sapeva toccare le corde della sensibilità popolare e i suoi componimenti divennero presto parte del patrimonio canoro delle osterie, magari riadattati secondo le modalità polivocali della tradizione locale. L'urto sordo dello scafo contro "il terribile scoglio" (che pare animato come i mitologici scogli di Scilla e Cariddi) spegne i canti pieni di speranza degli emigranti, ed è lo stesso orizzonte, quello scrutato con l'allegria della partenza, a sprofondare nel mare, con l'immagine delle famiglie che in un ultimo abbraccio "si spariscono" tra le onde. E sull'intera scena s'aggira, come un san Carlo tra gli appestati, la figura consolatoria, e al tempo stesso inquietante, del vescovo benedicente i naufraghi in attesa della fine.

Con il cantastorie il canto dell'emigrazione incontra la narrazione realistica e gli elementi onirici e simbolici propri del canto tradizionale più antico (la partenza, il mare, il naufragio) si reificano nella nuova dimensione narrativa della cronaca che il cantastorie portava alle moltitudini proletarie (ma anche al cittadino e al borghese che passeggiava per le piazze festive) anticipando o sovrapponendosi alle moderne forme di informazione che l'avrebbero, nei decenni a venire, scalzato dal suo ruolo.

Sia "Mamma mia dammi cento lire" che "Il Sirio" assumono l'epos dell'emigrazione nella categoria del tragico, ma mentre l'antico canto "travestito" narra una vicenda individuale, e in ciò resta fedele ad uno dei caratteri distintivi del canto lirico-narrativo dell'Italia settentrionale, la ballata del cantastorie è un affresco collettivo, ricco di immagini che potremmo già definire "di massa", e in effetti quasi cinematografiche. Qualcosa di simile era avvenuto con i canti sorti dall'esperienza della monda e della migrazione stagionale in genere, dove spesso protagonisti autoreferenziali sono i gruppi di mondine e lavoratori stagionali. Anche quando il tema di tali canti non è politico, vi si respira la brezza di una nuova consapevolezza sociale.

Però l'emigrazione oltremare suscita anche una rappresentazione identitaria, di "collettività" unita intorno a quella stessa distanza dalla terra natia dalla quale lo sguardo dei sentimenti poteva per la prima volta abbracciare una più vasta porzione di mondo ed in qualche misura identificarla con un proprio luogo affettivo. Ora non stiamo parlando della retorica patria, quella verrà dopo, e sarà accompagnata dai consueti fini strumentali e funesti. Il garibaldino amareggiato del racconto-reportage "Sull'Oceano" di Edmondo De Amicis, allo scrittore che osserva come persino i contadini, una volta all'estero, "ricordano e amano la patria", risponde, scrutando assorto l'orizzonte: "La terra, non la patria".

La discussione sul sentimento dell'emigrante verso terra d'origine e patria potrebbe esser veramente infinita a volerne indagare, sul piano individuale e su quello sociale, i contenuti emozionali, psicologici, ideologici e simbolici. Noi ci limitiamo a cercarne traccia in un celebre canto che, pur non presentando la stessa organicità testuale del "Sirio", è composto da immagini molto realistiche e didascaliche. Non si narra di un episodio particolare, ma si descrive un destino comune che affratella gli emigranti italiani nel loro viaggio per le Americhe e nel lavoro civilizzatore di una terra rappresentata ancora come quasi selvaggia, al pari delle colonie africane della retorica colonialista, e di fatto questo canto sembra risentire di quello spirito.

Evviva evviva Cristoforo Colombo
che ha scoperto la parte del mondo,
e navigando sul mare profondo
fino all'America e noi siamo arrivà.

America lontana che splendi così bella
e tu Italia che splendi come stella
la nuova Italia, il tuo nome è gloria,
ci canta e chiama l'America sorella.

E siam partiti dal porto di Genova,
e siam partiti con grande onore,
trentasei giorni di macchina a vapore:
fino all'America e noi siamo arrivà.

America lontana che splendi così bella
e tu Italia che splendi come stella
la nuova Italia il tuo nome è gloria,
ci canta e chiama l´America sorella.

E l'America l'è longa e l'è larga,
l'è circondata dai monti e dai piani
e con l'industria dei nostri italiani
e abbiam formato paesi e città.

Il tono è decisamente ottimistico e pieno di speranza, fin troppo per non far sospettare la presenza di una penna colta o semi-colta, con quell'evviva rivolto a Cristoforo Colombo cui subentra immediatamente l'immagine imprescindibile del viaggio e del "mare profondo", quindi un'invocazione duplice all'America e all'Italia affratellate in bellezza. Un'Italia nuova e gloriosa che celebra le lodi della terra lontana come di un intatto paradiso di promesse, per poi concludersi con un'ampia immagine evocativa delle vastità del nuovo mondo, descritto come una terra vergine e sconfinata all'interno della quale l'attività operosa degli italiani ha portato la civiltà.

Come si è detto il canto è fin troppo enfatico e trionfalistico per non offrire il fianco allo spirito sostanzialmente disincantato e anti-retorico della cultura contadina e così, incontrandosi-scontrandosi con quello che in origine avrebbe potuto essere un canto distinto, perde il riferimento ingombrante allo scopritore dell'America e l'incipit affronta immediatamente il più concreto tema del viaggio, "trenta giorni di nave a vapore", dopo i quali ad attendere l'emigrante non vi sono particolari bellezze od allegrie, ma anzi "né paglia né fieno", ma solo "il nudo terreno" per riposare "come le bestie". Anche il ritornello perde i toni celebrativi e assume invece una posizione dubitativa e disincantata:

Merica Merica Merica,
cossa sarala sta Merica...

Infine, il testo "aperto" accoglie in altre versioni un'immagine onirica: "ci andremo coi carri dei zingari", con la quale il bastimento a vapore cede ad un surreale mezzo di trasporto. Il finale è di nuovo improntato, in tutte le versioni note, all'orgoglio per l'operosità italica, ma oramai il canto non è più credibile in funzione propagandistica. È stato, per così dire, depotenziato della sua carica "istituzionale", perdendo in coerenza narrativa, ma guadagnando in respiro poetico e complessità di simboli.

Questa capacità di elaborare testi e melodie provenienti dal grembo stesso della cultura popolare, o da quei territori limitrofi che furono le ballate dei cantastorie o i componimenti semi-colti, è durata fino a che il popolo è rimasto artefice e al tempo stesso fruitore dei propri canti. Il valore poetico di canti come "Io parto per l'America", "Trenta giorni di nave a vapore", "Mamma mia dammi cento lire" ed altri ancora risiede proprio in quel loro carattere di testi aperti, sfuggenti ad una codificazione definita, oscillanti nel grande mare delle infinite esecuzioni di interpreti incuranti di un pubblico perché pubblico a sé stessi, ognuna diversa ed unica, ognuna espressione di un momento irripetibile.

Con l'avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa, e il parallelo e non irrelato declino della civiltà contadina tradizionale, si affievolì sempre più la capacità del popolo di creare autonomamente il proprio canto attingendo al proprio repertorio tradizionale, oppure di intervenire sui prodotti culturali d'altra provenienza adattandoli alla propria sensibilità. Se il canto dei cantastorie, memorizzato o letto da fogli volanti era facilmente ricondotto agli schemi letterari e musicali di una tradizione ancora vitale, la canzonetta che irrompeva nelle osterie da quel luogo assoluto e intangibile che era il nuovo spazio televisivo, ripetuta ossessivamente di sera in sera, finiva per imporsi come qualcosa di immutabile, un testo chiuso, dotato di una sua oggettualità sacrale, sul quale si poteva forse intervenire con sarcasmo dissacrante, ma non pretendere di trarre da esso un prodotto culturale più confacente al proprio modello di vita e alla propria sensibilità.

Il canto d'emigrazione seguì la stessa sorte, e "Se ghe pensu" si diffuse in tutto il mondo e finì per simboleggiare il sentimento autentico dell'emigrante della seconda generazione, che anela al ritorno a casa dopo una vita di lavoro in terre lontane. Trionfa quel melenso nazional-popolare che forse, con il crollo della civiltà contadina, è divenuto veramente il sentimento più rappresentativo del mondo popolare modernizzato ed urbanizzato, almeno fino ai grandi rivolgimenti sociali e di costume degli anni Settanta. Il testo è semplice, ha una sua grazia mediocre e non disprezzabile, la melodia è malinconica e struggente, ma siamo ben lontani dalle asperità simboliche, dagli squarci sulle profondità psicologiche offerte dai vecchi canti contadini. Il canto di emigrazione non sarà più il riflesso spontaneo ed immediato di un'esperienza collettiva, ma il prodotto pianificato di un'industria del sentimento che vedrà il popolo passare dal ruolo di creatore del proprio discorso a quello di fruitore passivo, soggetto al quale sarà precluso di riadattare ad una propria, ormai smarrita, misura esistenziale autonoma, quei prodotti culturali che lo pretendono protagonista, ma di fatto ne tracciano solo una degradante caricatura.

"Se ghe pensu", al pari di "Terre lontane" e molti altri canti consimili, farà piangere intere famiglie di emigranti, quelli rimasti, quelli ritornati e quelli che solamente hanno visto partire i loro cari. Ma la vera tragedia, quella dei corpi inghiottiti dalle acque e dei molti di cui si persero le tracce, era ormai lontana, e con essa la verità di canti troppo aderenti al reale e alle sue contraddizioni, troppo interni alle dinamiche proprie di una declinante cultura popolare di tradizione, per sopravvivere alla grande illusione della nuova società dello spettacolo. Il nuovo sentimentalismo che aveva conquistato il mondo popolare servì forse, soprattutto, a rimuovere quei dolori di tanto più grandi.

Paolo Ferrari

 


Io parto per l'America = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori -- <https://www.appennino4p.it/america.htm> : 2007.10 - 2007.11 -