Dove comincia l'Appennino

La ricombinazione di formule nei canti tradizionali


In chi si appassiona alle espressioni tradizionali tuttora vitali nelle Quattro Province può sorgere il desiderio di imparare o trascrivere il testo di una bogliasca, di una ballata o di uno strambotto, o il titolo di una suonata da piffero, sentiti eseguire durante le feste.

La messa in pratica di questo desiderio non è però semplice quanto si può pensare in un primo momento. Non è infatti scontato che ogni brano abbia veramente un testo o un titolo fisso, come ci ha abituato a pensare l'economia industriale che tutto cataloga per poterlo poi smerciare come prodotto. Se infatti nel tal disco dei tali esecutori quel pezzo aveva quel testo e quel titolo, attribuiti per comodità al momento della sua produzione, resta però da verificare che essi rimangano tali nel momento in cui li ascoltiamo da altri esecutori, in un luogo diverso e in diversa situazione.

La variabilità era abituale anche nella musica colta all'epoca di Bach: le sue partiture infatti non contenevano tutti i dettagli esecutivi, che si dava per scontato fossero inrepretati da ciascun diverso musicista secondo la propria ispirazione; e ancora i concerti di Skrjabin erano eseguiti ogni sera in modo diverso [Vlad 2011, p. 183-185].

A rifletterci, l'iniziale frustrazione delle moderne abitudini etichettatorie può invece insegnarci qualcosa di molto profondo a proposito della cultura popolare. I portatori del canto tradizionale, pur essendo persone tanto normali quanto i loro ammiratori cittadini, agiscono con logiche differenti: ed è proprio in queste — più che in una particolare melodia o storia — che risiede la vera ricchezza del patrimonio tradizionale. Essa è stata descritta come lo stile orale dal geniale e anticonvenzionale antropologo Marcel Jousse, che proprio nei contadini della regione francese in cui era cresciuto, la Sarthe, seppe cogliere molti elementi che rischiano di perdersi nella rigidità della cultura scritta, algebrosata come egli ama dire con uno dei numerosi termini di suo conio.

Per Jousse i portatori della cultura popolare (che siano contadini francesi, religiosi ebrei, nativi americani o canterini delle Quattro Province) sono dei verbo-motori: il loro sapere è cioè fondato nella gestualità e nell'oralità piuttosto che nella scrittura, ed è a quelle che essi attingono in modo inconscio ogni sera in cui si ritrovano a suonare, cantare o ballare.

Una delle leggi dello stile orale è quella del formulismo, ossia la capacità di creare nuovo significato ricombinando gli elementi codificati del sapere tradizionale:

Se ci limitiamo a raccogliere in ciascun ambiente etnico di stile orale, a caso, una o due improvvisazioni [...] noi risentiamo una per una, ma in contesti variati, le formule sgorgate dalle labbra degli improvvisatori precedenti. È, per così dire, come un meraviglioso gioco di domino viventi: i pezzi del gioco rimangono sempre palesemente gli stessi con le stesse reciproche attrazioni, ma le loro combinazioni si rinnovano quasi indefinitamente.
[Jousse, Lois psycho-physiologiques...]

A un seguace di Jousse, l'americano Milman Parry, si deve una straordinaria indagine sui cantori tradizionali serbi e sulle ballate epiche da loro eseguite. Parry si rese conto che il modo di tenere a memoria quelle lunghissime storie non era basato sul loro testo esatto, che cambiava di esecuzione in esecuzione. Ciò che permetteva ai cantori di soddisfare le richieste dei presenti era la conoscenza di un insieme di fattori, comprendenti le storie cavalleresche udite da altri cantori, le convenzioni ritmiche e melodiche della loro cultura e un vocabolario di espressioni tipiche, le formule appunto. Ciascuna esecuzione ricrea una ballata a partire dall'insieme di questi elementi, ottenendo un risultato conforme alla tradizione senza bisogno di essere fissato in un testo ogni volta identico.

Secondo Parry (i cui studi dopo la morte prematura sono stati divulgati dall'allievo Albert Lord), gli stessi meccanismi furono all'opera tre millenni prima nella non lontana Grecia, allorché qualcuno trascrisse una particolare esecuzione delle storie orali dell'Iliade e dell'Odissea nella forma in cui sono giunte a noi, come fotografie un po' casuali di una realtà che era viva e fluida. A questa conclusione lo porta una dettagliata analisi delle migliaia di versi dei due poemi omerici, dove in effetti si ritrovano sistematicamente espressioni standard come la sequenza fissa di un certo nome e aggettivo, o nome e verbo: da esse i cantori dell'epoca dovevano attingere adattandole di volta in volta con piccoli aggiustamenti al contesto e alla metrica dello specifico verso in cui erano necessarie.

Il cantore procede grazie a un'abitudine inculcatagli e per associazione di suoni, parole, frasi e versi. Egli non rifugge dalla consuetudine, non ha bisogno né di fissare attraverso la memorizzazione né di cercare l'insolito per uso personale. Le frasi e i versi che più spesso adopera perdono qualcosa in finezza, certo, ma molti di loro devono suscitare quell'eco dell'incerto e oscuro passato da cui provengono. Dovremmo educare il nostro orecchio a cogliere questi echi, dovremmo smetterla di applicare alla poesia orale i cliché dell'altra critica, e quindi diventare consapevoli della ricchezza che le è propria.
[Lord, Il cantore di storie, p. 130]

Qualche esempio di formule di questo tipo si può trovare, come ora mostreremo, anche nei canti tradizionali oggi in uso nelle valli delle Quattro Province. Rispetto ai cantori serbi, la nostra realtà si trova probabilmente a un grado più avanzato di fissazione dei testi delle ballate, divenuti più brevi che ai tempi in cui dovevano essere eseguiti (e talvolta ballati) nelle lunghe veglie invernali. Le parole si sono stabilizzate e sono oggi conosciute a memoria in una sequenza più o meno fissa dai canterini — o almeno dal primo, dopo il cui attacco risulta più facile agli altri componenti del coro rammentare il resto della strofa aiutandosi con associazioni mentali, rime e memoria dei canterini vicini. Nonostante questa evoluzione, nei testi in uso possiamo ancora osservare certe ricorrenze e certe convenzioni che è difficile spiegare se non pensando al contesto orale nel quale devono essersi formate e tramandate.

Un buon esempio di formula che si può identificare in svariate ballate del territorio consiste nel "pugnale piantato nel cuore". Questa espressione ricorre all'apice drammatico di diverse storie cantate, non solo perché le ferite da coltello erano oggettivamente tra i mezzi più comuni di omicidi e suicidi, ma anche perché l'immagine e i termini fanno parte del repertorio semantico utilizzato per descrivere tali episodi. Li ritroviamo infatti quasi identici in canzoni diverse che narrano storie diverse (uccisione della moglie traditrice, della fidanzata che non ha mantenuto la parola, della moglie che la suocera ha malignamente descritto come non abbastanza solerte, del marito dispotico):

Allora il marito
sentir queste parole
prende il pugnale,
la vuole ammazzar.
[Il fraticello]
Ferruccio entra in camera
con rabbia e con furor,
prende il pugnale d'argento
e la ferisce nel cuor.
[Ferruccio]
E prese un pugnale,
ce lo piantò nel cuore:
la bella Richettina
non fa più l'amore.
[Richetta o E lé la va nel bosch]
«M'impresti signor conte,
m'impresti il suo pugnal [...]»
E quando l'ebbe in mano
nel cuor glielo piantò
[L'inglesina]

Di quest'ultima diffusa canzone si ritrova in un canto piemontese (La monferrina incontaminata, Nigra 15 - Ferrero 2) una variante inserita in una storia differente, a testimonianza che non solo espressioni a formula, ma anche interi episodi possono essere riutilizzati liberamente in nuovi contesti:

«Pristem ra vostra daga,
ra stringa voi tajè».
An à avì an man ra daga
ant ir cor a s'r'è piantaja.

Con parole più o meno fisse vengono espresse anche altre situazioni ricorrenti, come l'esortazione a recarsi a cercare un dottore (difficilmente disponibile nello stesso paese, nella vita montanara di un tempo) per visitare e soccorrere qualcuno che si venga a trovare in gravi condizioni (Cosa fanno le donne, Susanna al ballo, La Gigia l'è malada). Una formula canonica ci sembra si possa identificare anche nell'atto di "picchiare alla porta" da parte di un estraneo, bene o male intenzionato, che interviene dal mondo esterno nelle vicende quotidiane di una famiglia:

La mezzanotte l'è già suonata,
la porticella senti picchiar
[La mezzanotte]
E picchia, e picchia la porticella
finché l'ohi bella la mi viene aprir
[Picchia picchia]
Senti bussare, bussar la porta,
va' alla finestra veder chi è
[Il vecchierello]
Di lì a due orette
senti bussar la porta
[Ferruccio]
Si sente dare di un bussone alla porta,
la bella Majulin la casca in terra morta
[Majulin]

Altra espressione apparentemente banale, ma in effetti riutilizzata con regolarità in contesti molto differenti, con un ruolo metrico perlopiù fisso all'inizio di una strofa, è quando fu stà, da tradurre nei dialetti dell'Italia settentrionale che non usano il passato remoto con "quando arrivò" o "una volta arrivato/a". Si tratta in genere di percorsi lunghi e impegnativi, spesso in salita lungo i sentieri dei monti, lungo i quali raggiungere un certo punto intermedio costituiva una tappa significativa:

Quand ch'le fu stà in mitè la strà
l'à incuntrà d'una mònica
[Bütè la sela]
Quando fu stà a metà la strà
bela spozina si volta indré
[Sposina]
Quando fu stà inse la Pianà
con una coppia di suonatori
[Bosch ad Daj]
Quando fu stà a Montebrün
pòvero Draghin u gh'n'à fà anca jün [...]
Quando fu stà aa muntà der Ponte
pòvero Draghin se sügheja a fronte [ecc.]
[Draghin]
Quandu a l'è steta au ballu
nisciüŋ a fa ballà.
[Susanna al ballo]
Le tre figette di quella città
se n'andàvaŋ aa Madonna da Guardia...
quande sun stete arivè lasciü'
nu ghe l'àn ciü ritruvata
[Le tre figette]
Quan' fu stata sull'alte montagne
una bufera si scatenò
e la biondina in braccio andò
[Cosa rimiri mio bel partigiano]

A una standardizzazione di formule sembra riconducibile anche un fenomeno linguistico bizzarro ma estremamente diffuso, cioè il fatto che quando occorre nominare una mamma o una bella (o il maggio: vedi oltre) il nome comune debba essere quasi invariabilmente preceduto dall'esclamazione ohi: non solo entro un dialogo in cui occorra invocarle, come sarebbe più naturale aspettarsi, ma anche in contesti del tutto diversi, nei quali addirittura l'inserimento di queste due sillabe rende più difficile mantenere la ritmica del verso, il che prova proprio il fatto che esse siano sentite come necessarie per qualche altra, misteriosa, ragione di tradizione:

Ritorna a ca' in permesso,
gli dice la sua ohi mamma...
[Richetta o E lé la va nel bosch]
Mamma de la mia ohi mamma
dove son le mie sorelle?
[Ferruccio]
Mamma della mia ohi mamma,
l'ho gettato in peschiera.
[Majulin]
E io sospiro la mia ohi mamma
ché mai più la rivedrò
[L'inglesina]
Oggin ghe piànzan
ché lascia la sua ohi mamma
[La bella si marita]
E picchia e picchia la porticella
finché l'ohi bella la mi viene aprir. [...]
E m'ha baciato sì così forte
che la sua ohi mamma da lontan sentì.
[Picchia picchia]
Dimmi ohi bella se tu vuoi venire
a fare il viaggio di nozze con me.
[Le carrozze]

La stessa protagonista femminile ha nomi ricorrenti come Rosina o Teresina, e altre persone ed oggetti hanno epiteti fissi: la prigione è regolarmente scura, il ragazzo amato è quasi sempre il primo amore (anche quando la specificazione della priorità non appare necessaria alla situazione specifica), e il corteggiatore nelle ballate piemontesi è sempre un gentil galant.

Il termine galante è applicato con effetto un po' surreale perfino al corteggiatore di una gallina, e cioè un gallo (che in passato i cantori dovevano portare con sé, come avviene in Abruzzo), nell'attacco delle strofe con cui a Romagnese si salutano i padroni di casa portando l'annuncio della primavera. Le strofe successive di questo canto si alternano durante la serata in un ordine molto variabile e spesso casuale, man mano che vengono in mente al primo. L'amico Piero Rizzi Bianchi, competente cultore del canto tradizionale, si è impegnato nel ricostruirne una sequenza più coerente, basandosi sui rimandi che effettivamente si possono trovare fra alcune strofe e sui loro significati — per esempio, le strofe di ringraziamento e congedo dovrebbero essere eseguite verso la fine, dopo che i cantori hanno ricevuto dai padroni di casa un'offerta in vino o uova.

Considerando d'altra parte la logica ricombinatoria del canto tradizionale, potremmo anche sostenere che una sequenza unica "giusta" e un testo "completo" probabilmente non possano esistere, proprio allo stesso modo in cui "non esiste un'unica vera ricetta per il pesto", come avverte il gastronomo montoggino Sergio Rossi ricordando il valore della diversità e dell'adattamento nella cucina tradizionale ligure. Le strofe dei canti primaverili sono fatte in realtà per essere adattate man mano alle situazioni che i cantori incontrano nel loro peregrinare da una casa all'altra, e che possono averle originate. Questo fenomeno è noto per alcuni passaggi dei canti, comuni anche nei maggi della val Trebbia, come l'augurio finale di prosperità per le galline e di morte per il loro insidioso predatore:

Campa la ciossa
con tütti i so ciussein,
crapa la vulp
con tütti i so vulpein.

che nel caso i canterini siano accolti male potrebbe trasformarsi nel suo inverso, ossia una vera e propria maledizione per la vita contadina di un tempo:

Crapa la ciossa
con tütti i so ciussein,
campa la vulp
con tütti i so vulpein.

A Santo Stefano d'Aveto il canto viene anche adattato alla specifica casa visitata, inserendo il nome del padrone di casa e della sua consorte o, in mancanza di questa, citando genericamente i suoi familiari:

Oh caru me Paulu
che t'é tantu bunéivere
pòrtene in po' da beje,
che ti starà più bene al fianco
la tua Laura
che na pignà de oru.

Specifica per la visita al parroco è poi la strofa con la quale si cercava di blandirlo mostrandosi devoti alla Chiesa, per esempio a Cicogni:

E se avremo un figlio maschio
lo faremo prete!

Seguendo lo stesso tipo di logica, può avvenire perfino che i cantori improvvisino senza batter ciglio qualche verso nel contesto delle forme e dei temi tradizionali, come ho osservato qualche anno fa al maggio di Tornarezza al momento di visitare un'osteria la cui gerente era in procinto di sposarsi:

Russignö' u fa cicì,
a Gizella a vö marì,
belo vingh'ohi maggio...

un testo che ovviamente non avrebbe avuto senso eseguire in alcun altro luogo o momento, probabilmente ricalcato sulla reminescenza di un "a fijuleta a vö marì" o simile (essendo la nascita degli amori nei giovani un altro tema tipico dei canti primaverili), che però non ho sentito eseguire nel maggio attuale; si confronti, nel maggio di Ànzola di Bedonia: "E in custa bella cà | ghe sta iŋna bella fiöra, | daghe mariju in st'annu, | ne stà spettà iŋ atr'annu!".

In modo analogo, le mondine in partenza o di ritorno dalla stagione di lavoro adattavano canti ampiamente diffusi inserendovi il nome del proprio paese della val Vobbia, Staffora, Tidone ecc. al quale tanto si sentivano attaccati, adattando sul momento il verso alle sillabe del suo nome [GRP 1978; 1988]:

Oh mio caro Arezzo
ti vengo a ritrovare,
quando son partita
ho dovuto lacrimar.

Oh Fego, Fego bello
ti vengo a ritrovare,
ché quando son partita
m'hai fatto lacrimar.

Oh Cegni, Cegni bello...

La va, la va, la va
la squadra di Pecorara,
oh se la va
lasela pür andà.
La sta, la sta, la sta
la squadra di Poggio Moresco,
oh se la sta
lasela püra stà.

Oh macchinista attacca il vapore,
quel macchinone fallo volar,
fallo volare come un diretto:
nostro distretto vogliamo andar,
nostro distretto, ai nostri paesi,
siam genovesi, a casa si va!

Oh macchinista attacca il vapore,
quel macchinone fallo volar,
fallo volare come un apparecchio:
Poggio Moresco voglio volar!

La stessa operazione compivano con naturalezza le squadre di coscritti alla leva militare, di cui sono rimaste in uso alcune strofe:

E la bandiera l'è bianca, rossa e verde,
la porteremo a Cìcogni in val Tidon!

E la bandiera l'è bianca, rossa e verde,
la porteremo Romagnese val Tidon!

Cìcogni che canta,
Cìcogni ch'è bello,
questo ritornello
devi cantar...

Romagnese canta...

Còlleri u canta...

Adattare a un testo nomi di luoghi o di persone è una pratica frequente del canto popolare. Esso viene applicato anche alle strofe goliardiche da osteria che si usa improvvisare su uno schema tradizionale, rinnovando l'antica pratica italiana dell'improvvisazione in ottava rima rimasta viva specialmente in Sardegna e nell'Appennino toscano. Ma qualche esempio si può riscontrare, prestando un po' di attenzione, anche nel nostro territorio:

Gh'era 'l preve d'San Bastciaŋ
cuŋ baghì e furca in maŋ!
[Rit.:] Amore amore amor,
e la rosa l'è un bel fior!
Gh'era 'l preve d'Minchiniju
ch'u dizeva "porcu ..."! [Rit.]
Gh'era l'preve d'Muntmarteŋ
ch'u scurzava cm'un gugneŋ! [Rit.]

E da Stradela a Santa Maria
tüti i don i la dan via!
E da Broni a Redaval
gh'è tüt i om cun föra i bal!

E da Varzi a Nivion...

Questo gusto dell'improvvisazione in rima, che in passato era molto più diffuso,viene ancora spontaneamente applicato a nomi e cognomi da Andreino Tambornini, fisarmonicista di Salogni cresciuto nella tradizione dei grandi pifferai dell'alta val Curone, sempre utilizzando formule e temi tratti dalla vita contadina o addittura dalle funzioni religiose in latino. La sua applicazione della legge del formulismo ai nostri stessi nomi ci aiuterà a concludere il discorso senza esagerare nel prenderci sul serio:

Cezarin di Pej
cuŋ e prüghe inti cavei,
cuŋ e bgög inta camiza,
Cezarin suona la fiza.

Claudiu d'Muntöggiu
ch'u mangia, u beive
e u cüra u böggiu.

Balma
Dei mater alma

Gnoli
che mangia i ravioli

 

Claudio Gnoli con la collaborazione della redazione e di Piero Rizzi Bianchi

Bibliografia

Marcel Jousse, Lois psycho-physiologiques du style oral vivant et leur utilisation philologique, Geuthner, Paris 1931, cit. in L'anthropologie du geste, Resma, Paris 1969, p. 359, trad. nostra

Albert B. Lord, The singer of tales, 1960, trad. it. Il cantore di storie, 2a ed. a cura di Stephen Mitchell e Gregory Nagy, Argo, Lecce 2005

Walter J. Ong, Orality and literacy, 1982, trad. it. Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986

Roman Vlad, Vivere la musica, Einaudi, Torino 2011.

Gruppo ricerca popolare, Marinaio che cosa rimiri: canti e balli dell'Appennino ligure-piacentino, serie Albatros, disco 33 giri/musicassetta, distribuzione editoriale Sciascia, Rozzano 1978; Id., In mezö a-i monti, in faccia a-ö mâ, disco 33 giri/musicassetta, 1988

 


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