Le zampogne o cornamuse, strumenti di origine bimillenaria e forse indiana, sono diffuse in tutta Europa (il termine zampogna è preferito dagli etnomusicologi per indicare genericamente gli strumenti ad ancia muniti di otre, riservando cornamusa ad alcune sue realizzazioni specifiche).
In Italia settentrionale, tuttavia, ne sono sopravvissute poche forme, tra cui il baghet bergamasco-bresciano, la piva parmense-piacentina, e la musa delle Quattro Province. È probabile che forme simili fossero diffuse fin verso l'Ottocento anche in altre aree del Piemonte, del Ticino, della Lombardia e del Veneto, come suggeriscono vari affreschi e testi di rappresentazioni natalizie. Le zampogne italiane del Nord si differenziano da quelle centro-meridionali, e si avvicinano invece alle altre europee come il biniou bretone, per avere un chanter ad ancia doppia, e canne di bordone cilindriche ad ancia semplice, impiantate in fori separati dell'otre.
Il termine dialettale müza può essere trasposto in italiano, coerentemente con la fonologia dei dialetti liguri, in musa con u normale; e così viene infatti pronunciato, parlando in italiano, dai suonatori odierni. I parlanti anziani delle Quattro Province la chiamano anche müzetta, forma che potrebbe essere riconnessa alla musette francese.
Il chanter della musa è in do, con la sensibile in si (nota che si ottiene chiudendo tutti i fori), ed è privo di foro posteriore. Il bordone è unico (a differenza della piva, che ne ha due) e ha la caratteristica di essere intonabile. Queste due parti sono innestate nell'otre, originariamente ricavato da una pelle di capretto, in corrispondenza della posizione delle zampe dell'animale. Per la costruzione del chanter sono utilizzati legno di bosso (localmente chiamato martello) oppure di ebano, mentre per il bordone pero oppure bosso (per il momento non sono mai stati rinvenuti bordoni in ebano, che appare però teoricamente possibile).
La piva e la musa coesistono in aree limitrofe: la prima era presente nell'Appennino emiliano settentrionale fino alla val Nure e alla media val Trebbia; la seconda si rinviene nel territorio che dalla val Trebbia si estende verso ovest fino alla direttrice Tortona-Genova (valle Scrivia), collettivamente chiamato delle Quattro Province in quanto è situato a cavallo tra le province di Piacenza, Genova, Alessandria e Pavia. Questo territorio, identificabile in una comune cultura contadina di montagna, è caratterizzato proprio dalla musica tradizionale, storicamente eseguita da "müza e pinfiu", cioè dalla musa in accompagnamento al piffero, oboe popolare anch'esso di origini antiche e incerte. Questa accoppiata dev'essere di lunga data, come suggerisce il modo di dire che due persone "vanno d'accordo come musa e piffero", diffuso nel Genovesato e anche nella città di Genova.
Le origini della musa, come quelle di molti strumenti popolari, si perdono nel passato semplicemente per la scarsità di documentazioni precise riguardo agli oggetti di uso comune. Un quadro del seicentesco pittore genovese Bernardino Strozzi, intitolato "L'allegra brigata", rappresenta un gruppo di suonatori tra i quali si riconosce una zampogna oltre a bombarde e altri fiati. Le associazioni di parecchi strumenti all'epoca non dovevano essere inconsuete: una grida vescovile del 1578 a Sestri Levante cita balli "con suon di Muse, et altri istromenti", e vieta risolutamente di "suonare Muse, Liuti, Arpe, Viole, Lire, Rebecchini, Cittere, Chitarre, Flauti, Piffali, Cornetti: né qualsi vogli altra sorte d'istromenti atti a far ballare". È questo il documento più antico a nostra conoscenza che nomini la musa. Il fatto che venga citata per prima e ripetutamente suggerisce che si trattasse di uno strumento tipico dell'area ligure. Altre tracce infatti se ne trovano pochi anni dopo tra Torriglia e la Fontanabuona. In un processo del 1583 o 1584 l'imputato dichiara: "volevamo andare alla volta di Soglio, e gionti à Orero avendo sentito la musetta a casa di Gottardo Arata, si accostiamo per bere"; e in un altro del 1661 si riporta che nel paese di Marzano "il Bortolo Guano disse al Chigorno se le voleva fare due stanze con la musa et esso rispose che gliene havrebbe anche fatto quattro di stanze e così cominciò a pinfare la musa per suonare, ma Bortolo disse al Giacomo fermatevi di suonare perché ho da fare conto con alcuni che hanno mangiato e che se pur suonate usciranno fuori e non farò bene i fatti miei, per il che il detto Giacomo cessò di suonare et anco esso andò nell'osteria a mangiare..." [fonti in Claudio Gnoli e Fabio Paveto, U messié Draghín, in Paolo Ferrari et al., Chi nasce mulo bisogna che tira calci, Musa, Cosola 2007].
In alcuni di questi documenti la musa è citata da sola, non necessariamente quindi in accompagnamento con il piffero come avveniva nell'Ottocento. In effetti, a differenza del piffero, la musa è in grado di esibirsi anche da solista, accompagnando la propria melodia con il monotono suono del bordone. È quindi possibile che ci si accontentasse di questa soluzione nelle occasioni in cui era disponibile un solo suonatore. D'altra parte nelle valli delle Quattro Province i suonatori di piffero e musa erano indicati genericamente come i müzetta, forse anche per la maggiore impressione suscitata dalla musa, con la sua vistosa sacca (detta in dialetto a pelle o a baga, con lo stesso termine usato per gli otri usati per il trasporto del vino a dorso di mulo, costruiti con la medesima tecnica). In realtà, in presenza del piffero, a condurre la melodia è quest'ultimo, mentre la musa funge da accompagnamento.
L'affinità della musa con il piffero è anche organologica: sommariamente, infatti, si può dire che un chanter di musa staccato dalla sua sacca potrebbe funzionare come un piffero. Questo significa che i costruttori di pifferi possono essere anche costruttori di muse. Qualsiasi artigiano dotato di un tornio, usato per realizzare gambe di tavoli, perni di ruote ed altri componenti di legno, era potenzialmente in grado di costruirsi anche rudimentali strumenti. Per l'otre, come detto, si utilizzava una pelle di capra, animale ampiamente allevato su queste montagne: a Fontanachiusa in val Borbera (AL) è ricordato infatti un allevatore specializzato nella realizzazione di baghe.
Gli artigiani abili, che fornivano gli strumenti ai suonatori migliori, erano però molto meno comuni. Sulla loro identità le notizie sono scarse: il costruttore di pifferi più antico che si ricordi, Ferdinando Cogo, era attivo nell'Ottocento a Cantalupo Ligure in val Borbera, zona in cui operavano anche importanti suonatori. Successivamente costruirono sia muse che pifferi Giovanni Stombellini u Sartù (1860-1953 circa) di Ozzola in val Trebbia, Nicolò Bacigalupo u Grixu (1863-1937) di Cicagna in val Fontanabuona, ed Ettore Lòsini Bani (n. 1951) di Degara in val Trebbia: quest'ultimo, che è anche un noto suonatore di piffero, è al momento l'unico costruttore di muse attivo all'interno del territorio delle Quattro Province (recentemente gli si sono aggiunti Daniele Bicego nel Pavese e Ferdinando Gatti nel Modenese).
Venendo ai suonatori, a parte quelli citati solo per ragioni contingenti nei documenti visti, le notizie più precise a cui è stato possibile risalire si riferiscono all'Ottocento. In questo periodo la coppia di piffero e musa era probabilmente già stabilizzata, poiché si tramanda che il più celebre dei pifferai, il Draghin di Suzzi in val Boreca (PC), fosse solito incontrarsi presso il mulino sottostante il paese con un compagno musista, proveniente dal vicino villaggio di Bogli.
A Dova Superiore in val Borbera, poi, è ricordato un personaggio appartenente al clan dei Piscajeli, tale Giuseppe Maggiolo (n. 1808), che si recava a suonare la musa anche in altri paesi. Si narra che un martedì grasso costui ritornasse dalla vicina Vallenzona in val Vobbia (GE), dove la festa si era conclusa rigorosamente a mezzanotte per il sopraggiungere del divieto quaresimale. Nell'affrontare il crinaletto che separa il territorio di Vallenzona da quello di Dova, l'uomo sentì ululati di lupi che si facevano sempre più vicini; riparò allora su un ciliegio, ma i lupi sopraggiunsero ai suoi piedi. Cominciando a disperare di salvarsi, dall'alto dei rami suonò la musa, il cui timbro ebbe l'effetto di ammansire e allontanare gli animali. Poté così scendere e riguadagnare il proprio paese, nel quale entrò suonando per la felicità del pericolo scampato. Tale gesto suscitò lo scandalo dei paesani, poiché si era ormai entrati in piena Quaresima, ma venne poi giustificato dal suonatore col racconto della propria avventura. |
Questo aneddoto tra leggenda e realtà, denso di significati simbolici, ripete un topos diffuso in molte parti d'Europa e attribuito di volta in volta a cornamusisti, violinisti o altri suonatori [Gnoli e Paveto, cit.]. È interessante che la storia, che nelle Quattro Province è stata trasferita anche a famosi pifferai, a Dova venga associata ad un suonatore di musa, consacrando in qualche modo il valore simbolico di questo strumento.
Giuseppe Maggiolo potrebbe essere stato il compagno dell'importante pifferaio Lorenzo Bava, detto u Piansereju perché abitante nel paesello di Piancereto, a breve distanza da Dova. Nella "dinastia" dei grandi pifferai delle Quattro Province, successore del Piancereto fu Paolo Pelle u Brigiottu da Bruggi; il suo compagno musista era Giovanni Raffo (1844-1918), detto per antonomasia u Müzetta, o anche u Creidöra perché proveniente dal paese di Caldirola in val Curone (AL). Brigiottu e Creidöra furono molto famosi nelle valli delle Quattro Province, e si spinsero spesso a suonare anche nel Genovesato, in particolare nel paese di Uscio, dove la memoria della loro tradizione persisteva forse da tempi più antichi. Essendo il Brigiotto morto poco più che quarantenne, è probabile che Giovanni Raffo abbia continuato ad accompagnare altri pifferai, tra i quali Giacomo Sala Jacmon di Cegni che sarebbe diventato il più grande maestro del Novecento, trasmettendo loro anche parte delle tecniche e del repertorio. Jacmon suonò anche con Carlo Buscaglia detto Pillo (1870 circa-1940 circa) da Cegni in valle Staffora (PV), insieme al quale è ritratto in un'antica fotografia.
Nel frattempo, gli unici strumenti della cultura contadina povera cominciavano a coesistere con altri più sofisticati provenienti dalle città, quali il violino, la fisarmonica e il clarinetto. A Còsola in val Borbera (AL) si ricorda, durante una festa di matrimonio verso l'inizio del Novecento con piffero e musa, l'inopinata comparsa di una fisarmonica, che venne indicata con il sommario appellativo di sta ghitåra ("quella chitarra"). Ma l'avanzata della fisarmonica, che offriva maggiori possibilità melodiche e non necessitava di essere continuamente reintonata, era inesorabile: a Pej in val Boreca, Angelo Mottini detto Giolo prese a suonarla per accompagnare dei pifferai, tra i quali lo stimato Damiano Figiacone di Cosola. Si racconta che un giorno Giolo abbia incontrato Jacmon e Creidöra alle Capanne di Cosola, importante locanda e ricovero per i muli all'incrocio di tre valli nel pieno cuore delle Quattro Province: in questa occasione piffero e fisarmonica provarono a suonare insieme, e Jacmon si convinse della validità del nuovo abbinamento. In una variante della storia, l'incontro sarebbe invece avvenuto a Samboneto fra Giolo e un pifferaio diverso da Jacmon. Di fatto l'aneddoto riassume un processo più lungo e graduale, ma indubbiamente la scelta compiuta dal pifferaio più rappresentativo dell'epoca, cosciente che per mantenere la tradizione occorreva anche adattarla ai gusti più moderni, sarebbe risultata determinante per il consolidamento dell'accoppiata piffero-fisarmonica, che oggi costituisce il duo canonico per la musica delle Quattro Province.
Nei primi decenni del Novecento, dunque, la musa andò progressivamente scomparendo dalla scena. In realtà però la sua presenza perdurò assai più a lungo di quanto si vuole solitamente ritenere, grazie soprattutto all'attività di un ultimo grande suonatore, Carlo Musso detto Carlaja o Pregaja (1873-1956) di Predaglia in val Curone. Egli è ampiamente ricordato come compagno di Carlo Agosti detto Carlon, del vicino paese di Gregassi, un altro pifferaio di valore seppur di spirito meno professionale rispetto a Jacmon. Anche loro giravano ampiamente le valli delle Quattro Province, fino all'alta val Borbera, alla val Trebbia e alla Fontanabuona. Nel 1930 furono chiamati a suonare a Roma, insieme a molti altri suonatori rappresentanti di varie regioni, in occasione del matrimonio di Umberto II di Savoia con Maria José; a quando risulta da fotografie e testimonianze, fu però Jacmon ad accompagnare Carlaja, forse perché Carlon era impossibilitato a compiere il viaggio.
L'accoppiata dei due soprannomi, Carlon e Carlaja, rifletteva in qualche modo il bizzarro abbinamento delle loro figure, poiché Carlon era di bassa statura e molto grasso, mentre Carlaja era alto e magro. Tra gli itinerari che i due percorrevano per recarsi a suonare c'era la discesa per la val Curone verso la città di Tortona. Nella bassa valle, a Volpedo, operava in quel periodo Giuseppe Pellizza, il pittore che sarebbe diventato celebre per la sua opera "Il quarto stato". Nel 1894 Pellizza realizzò un altro quadro a tema sociale, "Speranze deluse": vi è rappresentata in primo piano una semplice pastorella in mezzo alle sue poche pecore, in atteggiamento sconfortato. La spiegazione della scena e del titolo si coglie osservando lo sfondo, sul quale sta transitando un corteo nuziale: evidentemente il giovane amato dalla pastorella ha finito per sposare una ragazza di famiglia più benestante. Il corteo è aperto da una coppia di suonatori, come all'epoca era comune. I loro strumenti non si distinguono, ma dalla posizione dei corpi e dall'epoca è probabile che si trattasse di un piffero e una musa. Orbene, il suonatore del probabile piffero è nettamente più basso delle persone che lo seguono, mentre l'altro è decisamente alto. Questo strano dettaglio ci fa pensare che Pellizza, come era suo solito, abbia fissato dei particolari reali, e che i due suonatori siano proprio Carlon e Carlaja. Dalla signora Maddalena Lugano abbiamo avuto la conferma che ancora negli anni Trenta i "müzetta" passavano occasionalmente suonando per le vie di Volpedo. E la gente diceva che i suonatori erano come l'articolo il, cioè uno alto e uno basso: proprio come quelli raffigurati nel quadro quarant'anni prima...
Carlon, più anziano, morì nel 1949, mentre Carlaja gli sopravvisse fino al 1956. Al suo paese, dove si svolgeva anche un significativo carnevale tradizionale, si ricorda che suonava ancora la musa nei primi anni Cinquanta. Dopo la sua morte, alcuni paesani affezionati alla tradizione provarono a loro volta a costruire artigianalmente una musa, ma lo strumento che ne risultò non produceva un suono accettabile, e anche l'eredità dell'ultimo musista finì con il perdersi.
Negli anni Settanta e Ottanta, con la comparsa nelle Quattro Province dei primi etnomusicologi, si ridestò l'interesse per la musica tradizionale, che era stata tenuta in vita soprattutto dal pifferaio Ernesto Sala, erede di Jacmon. Febo Guizzi acquistò e studiò la musa di Predaglia. Due giovani suonatori, Roberto Ferrari e Fabio Zanforlin, ne ricostruirono un'altra con mezzi di fortuna, sottraendo il legno di bosso a qualche siepe e realizzando l'otre con gomma da canotti (il che però impediva la traspirazione del fiato); ed Ettore Losini ne riprese la costruzione con i materiali canonici.
In questa fase, alcuni dei principali suonatori di piffero e fisarmonica scelsero di recuperare anche il suono della musa, rielaborando una tecnica di accompagnamento presumibilmente simile a quella dei vecchi suonatori, e impiegandola ora come un terzo strumento invece che in alternativa alla fisarmonica: ne nacquero gruppi di musica tradizionale come "i Müsetta" di Ettore Losini e Attilio Rocca con Piercarlo Cardinali alla musa (alternata con piva o chitarra), "i Suonatori delle Quattro Province" di Stefano Valla e Franco Guglielmetti con Andrea Masotti alla musa (probabilmente l'esecutore più stimato di quest'epoca), e i "Suonatori e ballerini di Menconico" o "Mons Conicus" di Roberto Ferrari e Claudio Rolandi con Fabio Zanforlin alla musa. L'esperienza dei "Suonatori delle Quattro Province" si è conclusa negli anni Novanta, mentre di recente si è formato un nuovo trio, i "Lampetron" di Marco Domenichetti (poi sostituito da Stefano Faravelli) e Cesare Campanini con Daniele Bicego alla musa. In contesti di folk revival la musa viene inoltre impiegata da Andrea Capezzuoli, con Francesco Nastasi al piffero.
L'apparizione della musa in questi complessi, tuttavia, rimane soltanto occasionale, e anzi in questo momento il suo uso sembra nuovamente in declino. Uno dei problemi lamentati dai suonatori è che, a causa dell'interruzione verificatasi fra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta, è mancata la trasmissione diretta fra le diverse generazioni di suonatori dello stile e delle modalità esecutive, che si è invece fortunatamente mantenuta nel caso del piffero e della fisarmonica "da piffero": in altre parole, non si sa esattamente come la vecchia musa venisse suonata. Abbiamo però interrogato un suonatore che, per ragioni anagrafiche, ha avuto modo di ascoltare sia la musa di Carlaja che quella di Andrea Masotti: Osvaldo Morgavi detto Grizei (n. 1924) di Martinasco in val Curone, fisarmonicista attivo in diverse orchestrine ma anche compagno di Jacmon per cinque giorni consecutivi durante un carnevale in val Trebbia. Morgavi ci ha esplicitamente riportato che il modo di suonare la musa nei due periodi è a suo avviso sostanzialmente lo stesso. Dello stesso parere è Ettore Losini, sulla base di considerazioni organologiche.
Le tracce del suono della musa, che sembravano perdersi già cent'anni fa, sono dunque più vicine a noi di quanto si potesse credere. Costruttori e suonatori in grado di reintegrare lo strumento nel repertorio tradizionale delle Quattro Province, in un contesto fortunatamente ancora vitale, sarebbero disponibili. Ciò che è finora mancato è l'incontro fra il suono antico e penetrante della cornamusa appenninica e la sensibilità musicale e il gusto del pubblico odierno. Questo incontro non può certo essere forzato, ma ci sembra che il valore storico e culturale della musa meriterebbe di non andare perduto. Auguriamoci che, a differenza di quelle della pastorella pellizziana, le nostre non siano speranze deluse.
Claudio Gnoli e Fabio Paveto
aggiornamento e adattamento del testo pubblicato ne "Il cantastorie", anno 45: 2007, n. 72
col titolo La musa delle Quattro Province: "speranze deluse"?
Il 17 aprile 2010 Francesco Nastasi e Andrea Capezzuoli, col nome di "Duo brisco", hanno presentato il loro CD di brani delle Quattro Province "...Per fare legria ai siuri de Milan" suonato quasi interamente solo con piffero e musa. Questa interessante esperienza, e le considerazioni che la accompagnano riportate sul libretto del CD, rilanciano la discussione e l'interesse per la musa.
La musa delle Quattro Province = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori — <http://www.appennino4p.it/musa4p.htm> : 2010.02 - 2012.01 -