Dove comincia l'Appennino

Discorso e retorica dell'abbandono

La natura è piena d'infinite ragioni che non furon mai in isperienza.
(Leonardo da Vinci, Codice I, 1492-1516)


1. Il titolo di questo mio scritto riprende quello dell'ultimo capitolo de Il mantello del centauro, l'ultima pubblicazione della collana Menüssie de gea, e rivela il bisogno di proseguirne i temi, su di un piano argomentativo più astratto e teorico, ma non per ciò — spero — meno attinente alla realtà di cui si parla.

Si tratta, in sostanza, della schiuma ultima del movimento alterno di argomenti indagati o raccolti in narrazione, tutti fluenti e rifluenti intorno al gran tema dell'abbandono. Un tema che potrebbe manifestare i suoi vaghi confini rispondendo o riecheggiando alle seguenti domande: veramente ogni territorio chiede d'essere abitato? Veramente solo l'abitare e l'attivare le caratteristiche naturali di un territorio conferiscono a quello un significato, un valore, una funzione?

Questo uomo, con Protagora di ogni cosa misura, lo assumiamo oggi, in quanto termine di misura, esclusivamente nella sua dimensione culturale, e così ci imbattiamo in un fatto che non sembra poi di poco conto, ovvero la rimozione della dimensione naturale intesa come istanza, certo non separabile dalla sua controparte culturale, ma comunque potenziata di senso e valore che hanno il loro svolgimento autonomo, ancorché non separato.

Porre il tema del riconoscimento di un valore nel fenomeno dell'abbandono e dello spopolamento delle terre d'altura non è impresa facile, né foriera di facili consensi. Molto più facile, certo, è far risaltare il disvalore riposto nel discorso scaduto a retorica, cioé banalizzato strumentalmente o per ignavia ratio, che allo stesso fenomeno si applica così sovente, nelle attività e progettualità istituzionali, turistiche e turistico-culturali, mass-mediatiche, culturali e promozionali che dir si voglia.

Naturalmente (ma non così evidentemente) riconoscere un valore all'abbandono non comporta non riconoscerne agli sforzi che vanno in direzione opposta allo stesso, e qui ci scontriamo con la difficoltà intellettuale (che è stata, e tuttora è, prima di tutto la mia) e con la necessità di un difficoltoso passo avanti argomentativo, concettuale; con la formulazione, cioé, e l'accettazione di un duplice movimento, sia nelle forme di una ambivalenza di struttura logica, sia nell'equivalente figura riconoscibile nella storia di questi entroterra d'altura, di movimenti di popoli su e giù dalle valli, popolamenti e spopolamenti che, nel corso dei millenni, si sono alternati ed hanno prodotto — oscuramente, se vogliamo — quello che oggi siamo ed è il nostro territorio; con le sue diverse caratterizzazioni e connessioni all'interno di quadri macrostorici, le sue peculiarità e affinità con altri, contemporanei, analoghi, movimenti di popoli e di culture nel mondo, dagli albori della storia fino agli anni della rivoluzione tecnologica, economica, sociale, del secondo dopoguerra, oggi vertiginosamente superati nella nuova realtà (o irrealtà) del virtuale.


Accettare questo duplice movimento (ammesso che i suoi termini sia possibile definire in sufficiente chiarezza), anche su di un piano valoriale, vuol dire accogliere nel momento presente la forma di un divenire storico che, nell'andare e venire di popoli da e verso le terre che oggi vediamo spopolate, ha seminato valori e disvalori che sono intrinseci propriamente a quel movimento composto di direzioni opposte e alterne.

Chi è restato, chi è tornato e tornerà; ma anche chi, facendo altre scelte o subendo più forti costrizioni, ha diversamente resistito, nei nuovi luoghi e nuovi lavori, in così radicalmente diversi spazi e tempi, vivendo il luogo abbandonato delle origini attraverso le forme solo apparentemente sterili del rimpianto, della nostalgia, della rassegnazione; costoro — tutti quanti e tutti insieme — sono stati sommersi dalla grande corrente della nuova modernità di quei decenni Sessanta e Settanta (oggi già oggetto di interesse archeologico dai bordi consunti e incerti del nostro presente); ma l'abbandono riguarda a pari diritto chi è andato e chi è rimasto, perché gli uni e gli altri sono protagonisti di una unica storia, solo apparentemente divisi su opposti versanti di scelta e necessità: ma dove la scelta? E dove la necessità?

E anche potremmo dire, chi è rimasto (e forse anche chi è tornato o è di nuovo arrivato) è talvolta, per altri versi, abbandonato egli stesso da quella sua scelta o necessità, di cui non riesce più o non ancora a riconoscere le ragioni esistenziali; e sovente, al tempo stesso, vivendo nell'abbandono di quelli che non sono più, del mondo che non è più, che ha conosciuto, di cui ha sentito o non potrà più sentir raccontare.


E così chi è andato, diversamente ma ugualmente, è in altro modo rimasto, nei ritorni sporadici o stagionali, nella stessa nostalgia che è sterile solo per chi non conosce la potenza fondativa della rassegnazione, del ritrarsi dal mondo del progetto e dell'azione, questi ultimi sì, così spesso vani, confusi e sterili.

C'è dunque un abbandono nell'andare e un abbandono nel restare (e c'è un restare nell'andare e un andare nel restare), c'è un valore nelle scelte, nelle necessità, e anche nella casualità (che gli antichi chiamavano fato, noi destino, ma non ci crediamo più veramente, prigionieri del dogma della serialità di causa e effetto) che sorreggono l'andare e il restare di individui, soprattutto per un verso, e di moltitudini, soprattutto per altro verso.

Perché se parliamo di percorsi di vita individuali, l'uno dall'altro diverso, e diversamente non potrebbe essere, però parliamo anche di percorsi di moltitudini, di comunità intere, di ceppi parentali, e quindi delle strutture e dei processi che sono alla base di queste realtà collettive e che hanno costituito i modelli e fornito gli strumenti per elaborare le varie forme dell'abbandono, in configurazioni distinte, a certi livelli, e ad altri livelli invece uguali, com'è sempre nei divenire della storia.

Percorsi, movimenti, che trovano il loro senso, le loro cause e finalità, proprio in quell'essere di moltitudini, che rispondono alle dinamiche di gruppi sociali più o meno definiti, più o meno identificati; che, insomma, non sarebbero stati, non sarebbero o sarebbero ma radicalmente diversi senza le caratteristiche che definiscono quelle moltitudini che ne sono protagoniste.


2. Ci sono poi i due versanti di questo movimento di abbandono di luoghi, (quello, voglio dire, a noi più vicino nel tempo), ognuno dei quali implicante forme di crisi — crisi di presenza, per usare la terminologia dell'etnodemologo Ernesto De Martino [1] — diversamente caratterizzate: quello del lasciare i luoghi ancestrali e quello dell'affluire ai nuovi luoghi, della modernità, dell'urbanità, della società dello spreco, dell'abbondanza, del consumo e dello spettacolo. Possiamo dire che si sia trattato di una apocalisse rimossa, anestetizzata, certo incruenta (alle nostre latitudini e per i territori di cui ci stiamo occupando) rispetto a quelle rappresentate dai grandi genocidi della storia, ma non meno significativa e forse neppure diversa nella sua essenza.

Questi due versanti, complementari e strettamente interdipendenti, presentano ciascuno le proprie caratteristiche, ma difficilmente potrebbero essere sopposti ad analisi distinte. Coloro che abbandonavano il paese di origine erano più o meno inconsapevoli protagonisti di un movimento globale di portata epocale; stavano vivendo l'apocalisse del mondo contadino con uno stato d'animo complesso intriso di contradditorie istanze psicologiche e morali modulate sulle valutazioni e i vissuti di perdita e ottenimento: lo stipendio sicuro versus la libertà del lavoro nei campi; la socialità aumentata versus la monotona sicurezza ritualizzata degli affetti; la varietà di nuovi stimoli sensuali (alimenti, musica, immagini) versus la sfera ancestrale e identitaria degli stessi. Le stesse persone, poi, nell'affluire verso i mondi della modernità, nel contribuire a plasmarli portandovi i propri antichi saperi, in forma rimossa o stravolta o sublimata in negativo, posero in atto strategie di adattamento (e anche di rinuncia e rassegnazione) ai nuovi mondi tecno-consumistici-spettacolari, sia verso questi stessi mondi, sia rivolte indietro nelle forme dei ritorni periodici (le estati, le feste, qualche lavoretto ancora nell'orto o in un piccolo frutteto) ai paesi d'origine, rimodulati in immaginario mitico-nostalgico oppure rifiutati con rimossa e violenta amarezza oppure, ancora, in altre forme elaborate.

Sono brevi cenni, questi di sopra delineati, tracce che forse sarebbe proficuo seguire per una indagine, antropologica o sociologica che dir si voglia, forse ancora in sospeso o sicuramente ben lungi da un esaustivo svolgimento.


3. Proveniamo da una storia plurimillenaria di culturalizzazione dell'ambiente naturale; il nostro rimpianto per i paesaggi ordinati dei nostri padri e dei nostri nonni sarebbe condiviso da innumerevoli generazioni di contadini e pastori che ci hanno preceduto e ben più a ritroso nel tempo rispetto a quell'esemplare fulgido d'arte che è L'allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti nella Sala del Consiglio dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena (1338-1339), opera a proposito della quale lo storico delle foreste Mauro Agnoletti parrebbe ipotizzare — e verosimilmente — che, in epoche precedenti a quella comunale nella quale viveva il grande pittore senese, avrebbe potuto allignare una maggiore dimestichezza con la vita e l'ambiente selvatico, con il procacciarsi sostentamento attraverso la caccia e la raccolta, piuttosto che coltivando la terra; cioé attraverso un grado di attivazione delle risorse naturali la cui impronta ecologica sarebbe stata assai inferiore rispetto a quella di una società di allevatori e coltivatori.

Ma se è vero che la rinaturalizzazione del territorio, l'avanzare della selva sulle rovine delle città romane abbandonate e spopolate, offrirono alle popolazioni barbariche, che dal Nord e dall'Est Europa dilagavano di qua delle Alpi, ambienti ideali per la loro indole e cultura di cacciatori, è altrettanto vero che la necessità di ricreare ambienti sicuri dalla malaria e dalla concorrenza di altri efficaci predatori (lupi, orsi, linci, lontre ecc.), i vantaggi della conservazione degli alimenti rispetto a forme di sostentamento legate alla stagionalità e al momento, la conseguente possibilità di porre in atto forme elementari di commercio: tutti questi fattori e probabilmente molti altri che sfuggono al nostro pensiero avranno presto fatto prevalere un progetto di culturalizzazione dell'ambiente naturale con l'affermarsi conseguente di un ideale di paesaggio, forse ancora in nuce, forse ancora imperfetto e vago nei suoi profili, ma che certo già faceva intravvedere quell'evoluzione della coscienza collettiva del territorio verso un ordine che non poteva non rifarsi a quello che, tra il fitto della vegetazione, ancora si poteva leggere nelle tracce degli antichi dissodamenti, della romana centuriatio, un po' come, mutate mutandis, oggi leggiamo quello del nostro recente passato contadino nei muri a secco delle fasce terrazzate dirute e invase dalla rosa canina, dal rovo e dal prùgnolo.


Così si spiega forse, almeno in parte, perché sia così difficile concepire un valore intrinseco nell'ambiente naturale incolto: esso è idealmente, psicologicamente, nemico della nostra storia, è ancora, nel profondo della nostra coscienza, l'avversario da sconfiggere, con l'ascia e con il fuoco.

Eppure questa nostra storia, i processi sociali, economici, culturali in senso lato che la compongono, ci ha portato a fronteggiare non solo, non in primo luogo, una nuova storia, ma anche e forse soprattutto (o in relazione indissolubile) una nuova natura, risultato dell'elisione di un passato secolare o millenario di storia e natura, e dell'interazione di tale passato con un futuro che si delinea nelle forme di nuove angosce e nuove ineludibili scelte ed occorrenze, e questa volta al di fuori dai deliri millenaristici mistici o psicotici di un non così distante Medioevo, ma ben addentro alle asserite certezze statistiche, numeriche, modellistiche, della cosiddetta scienza, rimbalzata, amplificata, deformata dalla gran cassa mediatica a sua volta, questa, in costante evoluzione-deformazione.


4. Ed è proprio qua il punto, perché è questa nostra storia che deve essere profondamente ripensata, questo nostro presente che ci chiama a nuove consapevolezze, che ci chiede di elaborare in altre forme il rapporto essenziale, ineludibile, con il mondo naturale; e ciò bisogna sia fatto a partire dai margini inquietanti di un futuro che pare assumere, con ritmi e scadenze sempre più serrati, i connotati di un'apocalisse prossima ventura.

Si direbbe che il discorso odierno sul mondo contadino (della montagna o, fino a un certo punto, in generale) si sia arenato nei termini di una contrapposizione tra le forme culturali della civiltà rurale europea — rimaste sostanzialmente o in larga misura immutate da secoli (o da millenni, a più profondi livelli di struttura) fino alla metà del secolo scorso (questo, quanto meno, per quanto concerne il mondo contadino della montagna) — e le forme della modernità industriale, commerciale, tecnologica e mass-mediatica, così come le abbiamo sperimentate fino agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso.

Ad oggi la riflessione sulla crisi del mondo contadino storico-tradizionale si è misurata quasi esclusivamente e anche, forse, in forme insufficienti, con i processi dell'industrializzazione, della tecnologizzazione, del proliferare indefinito della merce e del consumo, con l'avvento delle nuove forme di acculturazione e controllo sociale legate alla società dello spettacolo e alla scolarizzazione di massa.

Ed è nel confronto (anche e per lo più emotivo) con tali processi che si è formato il sentire comune dell'abbandono, quale complesso di sentimenti diversi, complementari, opposti ma tenacemente commisti: rifiuto, rimpianto, nostalgia, angoscia repressa per quanto si è perso, soddisfazione per quanto si è conseguito o per ciò di cui ci si è liberati e così via.

Si potrebbe a lungo esercitarsi ad indicare in maniera vieppiù variegata, articolata, complessa, l'insieme contraddittorio di sentimenti, emozioni, percezioni che compongono questo sentire collettivo. Si potrebbe (chissà che qualcuno già non ci abbia provato) tentare una storia psicologica o della mentalità incentrata su quegli anni del Dopoguerra, che troppo diamo per scontati nelle loro implicazioni sentimentali, psicologiche, ideologiche in senso originario.

Quanto sappiamo veramente, sul piano psicologico del sentire comune o individuale (i due mai veramente scindibili), dei processi di elaborazione di quell'epocale passaggio dalla cultura tradizionale contadina (e della montagna in particolare) alla modernità tecno-industriale-consumistica del Secondo Dopoguerra, delle dinamiche sociali, economiche e psicologiche, delle motivazioni sottese agli innumerevoli movimenti di popolazione, individui, famiglie e parentati, verso la pianura e le città, con le nuove forme dell'abitare, del muoversi nello spazio, del fruire il tempo del lavoro e il tempo libero, del consumo e del desiderio?


E ancora prima che si sia giunti ad una elaborazione opportuna delle dinamiche, delle conflittualità, delle forme di osmosi, del passaggio da quel "medioevo" contadino alla Modernità dalla quale stiamo ormai uscendo, e già siamo fuori per buona parte della nostra esistenza individuale e collettiva; ancora prima che si siano rinvenuti gli strumenti concettuali e metodologici per analizzare questa nostra recente epoché, ecco che già siamo oltre e siamo a misurarci con il tempo dell'informatica, dell'automazione avanzata, della rete e dei social, dell'Internet delle informazioni e delle cose, dei big data e della surveillance, dell'intelligenza artificiale, della robotica, della manipolazione genetica e del post-umano (e forse collante di tutto questo sarà il pandemico, quale nuova dimensione del controllo sociale, dell'organizzazione del tempo e degli spazi, della normativizzazione del vissuto); e soprattutto con il tempo della grande crisi e del collasso apparentemente irreversibile degli ecosistemi a livello globale, dell'esaurimento delle risorse naturali, del drammatico impoverimento della biodiversità analizzato e denunciato ormai in un numero enorme di pubblicazioni di vario livello scientifico, il cui precedente escatologico più diretto è forse l'incubo atomico del Secondo Dopoguerra, quello più remoto (agevolmente individuabile), almeno per l'Europa, la peste nera del Trecento.

E dunque la rottura non è più tra due culture figlie del Medioevo: l'una, quella contadina, millenaria, in quanto continuità resistente delle sue forme legate alla terra, al pascolo, allo scambio e commercio di beni primari di sussistenza; l'altra, quella industriale, in quanto evoluzione della prima, perché le città, i mercati, nascono dal surplus produttivo delle campagne.

Rottura poi, ma consequenziale, e che mai veramente ha reciso il vincolo con il luogo e la terra, prima che, ed è quanto oggi sta accadendo, la tecnologia arrivi a sostituire i processi di natura, con la produzione sintetica di alimenti, vegetali e animali, e a chi si indigna si contrappongono le argomentazioni che invece enfatizzano la vertiginosa e benefica riduzione di impatto e impronta umana sulla natura (consumo di acqua e territorio, emissione di gas serra ecc.) che questo modo di alimentarsi consentirebbe.

Un mondo naturale finalmente liberato dall'intrusione dell'agricoltura, del pascolo, dello sfruttamento forestale, libero di esprimersi in complessità ecosistemica e regolamentato solo in proporzione ai bisogni di spazio e di movimento da parte dell'uomo, o, al limite, per il soddisfacimento di bisogni estetici di elaborazione dell'ambiente naturale, una sorta di land art non più retaggio di pochi geni eletti, ma di un comunitario senso estetico che, all'interno di una natura tornata alla sua primigenia libertà d'espressione, interviene con pochi tocchi per caratterizzare qua e là, in senso culturale, le forme del suo spontaneo evolvere.

Un sogno per alcuni, un incubo per altri, ma innanzittutto (anche al netto delle implicazioni di altra natura, ecologica, sociale, economica che una tale trasformazione comporterebbe) un orizzonte quasi inconcepibile dal pesante punto di vista del nostro millenario radicamento in quella lontana rivoluzione che chiamiamo Neolitico (oggi, per certi aspetti, rimessa in discussione come categoria storica, dall'antropologo anarchico David Graeber recentemente scomparso).


5. Torniamo all'affermazione iniziale da cui siamo partiti: quel valore dell'abbandono di cui si è detto. Consideriamo innanzitutto i processi attraverso i quali lo si è espulso dal dibattito attuale sulle terre alte, e noi pensiamo agli Appennini e alle Alpi, in prima istanza, ma a seguire anche a tutte quelle wilderness di ritorno contese tra opposte idealizzazioni, le spopolate vastità dei Supramonti di Sardegna, ad esempio, mentre altra storia, altra narrazione chiederebbero le pianure un tempo agresti dove la terra è divenuta materia prima da trasformare meccanicamente e chimicamente per ottenere alimenti che mangiamo con sospetto e paura.

Questi i concetti cardine, buoni per ogni occasione, automatismi argomentativi che traggono la loro forza da un tacito consenso che dispensa chi li afferma e chi li approva da ogni ipotesi di argomentazione dialettica: la natura ha bisogno dell'uomo, è un classico del più deteriore pensiero antropocentrico.

Ricordo un dibattito pubblico durante il quale uno dei relatori si profuse compiaciuto in un azzardato gioco di parole definendo i territori disabitati territori disabili. La visione produttivistica alla base di questa maldestra, un po' scabrosa e irrispettosa, ma significativa metafora getta una livida luce sull'idea di una natura che, al pari di un essere umano affetto da qualche patologia, non è utile alla collettività, non può dare il meglio di sé perché non beneficiata — attivata — dall'attenzione umana.

Attivata, per usare un termine tecnico esso pure piuttosto indicativo e un po' inquietante, come se prima del tocco umano/divino quella materia dormisse in una cieca passività: quanto, troppo, Aristotele, quanto, troppo poco Bruno in tutto questo!


Rovesciare questo argomento nel suo opposto è fin troppo facile, e non così interessante come seguirne le consequenzialità. Se si afferma l'idea che l'ambiente naturale ha un senso e una funzione solo se modificato dall'azione umana, si cancella d'un solo tratto (potenza della retorica) ogni possibilità di concepire gli habitat naturali nella loro dimensione biologica, li si vincola irrefutabilmente all'azione della storia, sorretti dal secondo formidabile argomento retorico che richiama appunto la dimensione storicizzata degli ambienti naturali: fatto innegabile nella sua evidenza, ma il cui svolgimento logico porta spesso a conclusioni che rivelano una difficoltà di articolazione dialettica, un assolutismo argomentativo condizionato da fini strumentali, nella peggiore delle ipotesi, ma talvolta anche da deformazioni professionali, orgoglio di disciplina, come è il caso, che esemplifico attingendo a un saggio che già nel titolo svela la radicalità di una tesi per certi aspetti, come vedremo, paradossale.

I due esempi, quello testè riportato e il seguente, va detto, si collocano a livelli qualitativi potremmo dire opposti (e infatti dedicheremo spazi diversi all'una e all'altra), il primo afferendo a un dire grossolano un po' da bar (per usare un altro luogo comune, che poi non è che nei bar non si facciano a volte anche discorsi intelligenti); il secondo a un ambito di eccellenza nella ricerca sul rapporto tra uomo e territorio che così si definisce (cito dal sito ufficiale): "Il LASA (Laboratorio di Archeologia e Storia ambientale) è costituito da un gruppo di lavoro multidisciplinare (geografia storica, ecologia storica, storia e archeologia ambientale, archeologia rurale, archeobotanica, storia sociale, geologia applicata) che coinvolge anche i partecipanti al Corso di Dottorato "Geografia storica per la valorizzazione del patrimonio ambientale" (Scuola di dottorato di ricerca in "Scienze storiche e filosofiche")."

Seguo con attenzione gli interessanti resoconti delle loro ricerche disponibili su Academia.edu. Alcuni componenti del suddetto gruppo di lavoro hanno dedicato degli studi alla questione della rinaturalizzazione, con una impostazione che è molto interessante per il discorso che stiamo facendo, all'interno di una raccolta di saggi intitolata Oltre la rinaturalizzazione: studi di ecologia storica per la riqualificazione dei paesaggi rurali (Oltre edizioni, a cura di Valentina Moneta e Claudia Parola).

La raccolta di saggi è del 2015 e il riferimento al concetto di rinaturalizzazione credo rimandi a un saggio precedente (2012) di Roberta Cevasco dal titolo se vogliamo più esplicito e radicale: La fine della naturalizzazione: approccio storico e geografico ai problemi dell'abbandono dei sistemi colturali locali, con particolare riferimento al piano paesaggistico ligure. Il punto di vista dichiarato, dal quale muovono le argomentazioni contenute nel saggio, è quello dell'ecologia storica, visto in contrapposizione critica con quello della rinaturalizzazione che caratterizzerebbe in maniera retrograda l'approccio istituzionale e programmatico alla gestione del territorio ligure con conseguenze negative in termini di dissesto idrogeologico (a fianco di altre scelte invece di artificializzazione del territorio stesso, il riferimento è agli studi di Massimo Quaini).

Il contributo delinea l'interessante dibattito tra approccio storico-ecologico e approccio naturalistico con riferimento alle teorie (qui abbracciate), già propugnate negli anni Settanta da Oliver Rackham (considerato uno dei padri fondatori dell'ecologia storica), di un superamento del concetto di natura primigenia e di climax a favore di una visione basata sulla considerazione dei processi ambientali storici, della biodiversificazione, in contrapposizione forse alla biodiversità, aggiungendovi cioè la dimensione diacronica, intesa come dimensione storica.

Si tratta di un dibattito di grande interesse che l'autrice in questo caso affronta a me pare con un eccesso di partigianeria a favore della propria disciplina scientifica, con affermazioni a volte un po' troppo perentorie come quella secondo la quale i coltivi e pascoli in abbandono non tendono affatto allo stadio di equilibrio climacico e tanto meno ad un ritorno al primigenio, processi questi piuttosto oggettivi (a cosa tenderebbero se no?) che per altro non sono in contraddizione con il riconoscimento dell'impronta storica sull'ambiente naturale, da nessuno scienziato naturalista o semplice uomo di buon senso negata.


E mi sembra proprio questo il punto debole — non tanto dell'interessante contributo della Cevasco quanto del dibattito in generale, che vede forse un eccesso di volontà di prevalere da parte degli storici dell'ambiente (e io, nel mio piccolo, mi ascriverei piuttosto tra costoro) rispetto a scienziati naturalisti che — come già accennavamo — ben si guarderebbero dal negare gli effetti della storia sulle caratteristiche biologiche degli habitat naturali.

Se la condizione climax non esiste più nei nostri territori storici come realtà compiuta, perché non dovrebbe continuare ad esistere come tendenza, verificabile nei processi che vedono la colonizzazione di determinati arbusti e piante in condizioni specifiche (e pur considerando anche l'interferenza delle colture e delle pratiche colturali storiche, per esempio, nella composizione edafica)?

La Cevasco ha in mente probabilmente i terrazzamenti liguri, ma se pensiamo a molte faggete non tagliate da 40-50 anni (ci sono sì, rimaste fuori dalla storia...), i processi di rinaturalizzazione sono evidenti: dalla riconversione spontanea a fustaia del ceduo alla formazione di una spessa lettiera, abbondante biomassa con insetti xilofagi, e insomma tutto ciò che serve per il ricostituirsi, non diciamo di una foresta primigenia, ma sì vetusta e complessa in termini di biodiversità.

Un processo che certo non cancellerà la storia passata, con quella continuerà in qualche misura a interagire, ma da quella non sarà certo impedito a seguire processi evolutivi riconducibili a fattori climatici, pedologici ecc.

Il dibattito teorico tra approccio storico-ecologico e approccio scientifico-naturalistico, quindi, mi pare si riduca a una questione di equilibrio tra elementi che non sono in contraddizione tra loro. Più problematico mi sembra utilizzare una presunta contrapposizione tra i due approcci per muovere una critica a politiche di gestione del territorio che sarebbero all'origine della rinaturalizzazione degradante del territorio.

In realtà è fatto questa volta incontrovertibile (storicamente) che il tipo di rinaturalizzazione del territorio montano già agricolo e pastorale, in tutta Italia, non è dovuto (se non in misura irrilevante) a forme di decisionalità e progettualità istituzionale, ma piuttosto allo stesso processo storico dell'abbandono e dello spopolamento, cioé alla fine della tradizionale economia agricolo pastorale montanara, questa sì in parte risultato di scelte politiche ed economiche, a livello locale e globale.

Altro argomento assai dubbio — ma per noi significativo — è quello che individua nell'abbandono del territorio e nella conseguente rinaturalizzazione dello stesso effetti di dissesto idrogeologico.

In questo caso è proprio la storia a insegnare che le cose non stanno sempre in questi termini, e, in molti casi, proprio l'azione antropica (storica) ha determinato le condizioni di dissesto alterando equilibri ambientali forse non primevi, ma certamente più vicini a una condizone di naturalità non intervenuta dall'azione umana.

Dal classico del Sereni, molto presente agli storici dell'ecologia, ci limitiamo a questa citazione, molto bella anche dal punto di vista letterario:

A mezzo il secolo XVI, Leandro Alberti, nella sua Descrittione di tutta l'Italia, mostra di aver già piena coscienza della gravità di questi processi, quando ci dice come essendo tanto moltiplicati gli huomini nell'Italia, et non essendo sofficienti i luoghi piani, et consueti di coltivare per produr le cose necessarie per il vivere, è stato necessario altresì di coltivare gli alti ed incolti monti; mentre per il passato, così, dai monti coperti di boschi, scendevano l'acque chiare fra selve et herbette, et scendeano con minor impeto et minor abbondanza, ora invece la pioggia non fermandosi, incontinente scendendo, et seco conducendo la terra mossa oltre il consueto grossa dei monti ridotti a cultura, entra ne' torrenti, canali et fiumi, con un impeto e con una capacità distruttiva senza precedenti, il che così non occorreva ne' tempi antichi. (Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 2017, p. 202)

Sereni tocca, in altri passaggi, il tema del dissesto idrogeologico determinato dall'azione umana, mostrando come, in varie epoche storiche, la consapevolezza degli effetti negativi dell'opera umana sulla stabilità idrogeologica fosse ben presente, tanto che sembrerebbe che solo in epoca moderna tanto successo abbia avuto il concetto opposto.


Anche le fasce terrazzate (che certamente rientrano nell'esempio letterario sopra citato) cui sovente si fa riferimento come ad esemplari soluzioni tecnologiche l'abbandono delle quali sarebbe all'origine di effetti di dissesto idrogeologico, svolgono la loro funzione solo perché e se costantemente manutenute dall'opera umana; richiedono pertanto una costante presenza dell'uomo, come sanno i vecchi contadini, mentre la copertura boschiva precedente, rimossa per crearle, garantiva stabilità ai crinali secondo un processo che Leandro Alberti descrive con una certa precisione e che la moderna scienza geologica potrebbe forse ancora più precisamente dettagliare.

Nell'attribuire alla modificazione dei pendii montani per ricavare fasce terrazzate da coltivare una funzione di stabilizzazione dei versanti e contenimento del dissesto idrogeologico si confondono causa ed effetto, motivazioni e finalità, si omettono dei fattori fondamentali (l'opera richiesta di manutenzione continua da parte dell'uomo), si capitola in fondo davanti a una visione romantico-antropocentrica che con un serio approccio storico poco ha a che fare, e che invece alimenta una retorica che contribuisce, ahimé, alle molte errate scelte di gestione del territorio, le quali non contemplano l'opzione (non sempre, ma spesso necessaria) della non-gestione, del lasciare fare, e questo ci porta ben lontano, ben addentro alla spinta prometeica dell'uomo occidentale oggi divenuta dominante nel mondo dominato dal mito dell'industria e dello sviluppo illimitato.

Non è per tenere in sicurezza il territorio che sono state create le fasce sui pendii delle montagne di tutta Italia, ma per ottenere superficie coltivabile e pendenze meno soggette all'erosione delle acque meteoriche esponendosi consapevolmente al rischio e alla necessità di un lavoro costante sia per mantenere le condizioni così create necessarie per l'attivazione agricola dei versanti, sia per contenere il dilavamento accentuato dalla rimozione del bosco. È vero che la riduzione della pendenza dei versanti ottenuta con le fasce terrazzate diminuisce la forza erosiva delle acque meteoriche, ma solo rispetto a superfici prive di bosco o di arbusti, quelle appunto necessarie per coltivare. L'opera di terrazzamento è una straordinaria invenzione culturale, colpisce per il suo valore tecnologico, ma anche simbolico e poetico, trasmette la sensazione di un titanico dispiego collettivo di energia umana. Ma è soprattutto una destabilizzazione, volta al soddisfacimento di bisogni produttivi basilari, di una condizione naturale anteriore (non modificata dall'opera umana); destabilizzazione che appare opera di stabilizzazione in rapporto a tali bisogni, ossia ai coltivi, quindi ad un ambiente modificato in funzione della presenza umana; non in rapporto ad una condizione di naturalità originaria (o se si preferisce precedente l'intervento umano) e neppure di una ritrovata naturalità.


6. Si potrebbe a lungo esercitarsi nell'analisi dei numerosi esempi di confusione concettuale, non importa quanto in buona fede, sul tema del rapporto tra uomo e ambiente naturale, ma non è questo l'obiettivo di queste mie riflessioni. Quanto sopra argomentato vuole solo portare in evidenza i diversi versanti del discorso e della retorica e come sia in fondo facile cadere dall'uno all'altro e così anche prestarsi a molte strumentalizzazioni. Una gran parte sarà giocata dal fattore sentimentale, e da quelle insidie bisognerà particolarmente guardarsi.

Il paesaggio delle vecchie cartoline è una finestra su di un passato al quale siamo tutti legati (che lo si sia vissuto o meno), anche perché è al tempo stesso a noi vicino di una o due generazioni e però lontanissimo di secoli in virtù di quella straordinaria accelerazione delle trasformazioni socio-economiche che abbiamo conosciuto a partire, diciamo, dal Secondo Dopoguerra.

È curioso notare come, nelle analisi anche più colte delle grandi trasformazioni socio-ambientali del territorio montano, alpino o appenninico, ricorra quasi come un refrain ossessivo il monito a non dimenticare che l'ambiente naturale della montagna così naturale non è (e di solito si attribuisce l'esiziale fraintendimento a qualche non meglio definito "ambientalista di città" o, nella peggiore accezione, "da salotto"), ma frutto del lavoro millenario di chi lo ha abitato e ne ha garantito gli equilibri idrogeologici con la sua fatica e il suo lavoro.

Ben raramente i moderni e contemporanei studiosi della civiltà, delle società e dei territori montani dedicano la loro attenzione a quegli aspetti di criticità legati all'opera umana, al sovrasfruttamento dei versanti montani, delle foreste e delle praterie che era invece fenomeno ben noto e ben rilevato dal cinquecentesco Leandro Alberti poc'anzi citato. Direi che qui agisce proprio quella retorica dell'abbandono che è energicamente suffragata dal mito della buona antropizzazione del buon tempo andato che è poi, forse, più recente, e più legato al nostro tempo (e a una cultura letteraria questa sì urbano-accademica).

È interessante leggere in Moreno Baccichet (Comunità di villaggio e insediamento nelle Alpi friulane: la val Meduna, Forum, 2018, p. 13) il seguente passaggio:

Ancora nell'Ottocento il Bassi (Bassi R. 1886, p. 149), descrivendo l'attraversamento di passo Rest, notava come, a differenza della rigogliosa vegetazione che copre per la maggior parte i monti della Carnia, tutto è deserto e squallore nella valle del Meduna. Ed invano si gira lo sguardo per trovare di posarlo su qualche ameno poggio tutto a prati, o a pascoli o a boschi, invano; tutto è dirupi nudi, tutto è frana. L'infinita ingordigia di quegli abitanti ha spogliato completamente quelle povere montagne, già ricche di boschi.

E ancora:

Tra il XVII e XVIII secolo, un fenomeno di profonda antropizzazione coinvolse tutta l'area di Tramonti. L'aver eluso il controllo politico sulla crescita demografica, mettendo in crisi il sistema delle risorse, condusse questa comunità e la sua valle alle soglie di un vero e proprio disastro ecologico. Sottoposta a un costante aumento demografico la montagna fu spogliata quasi per intero dei suoi boschi, frane e smottamenti erano all'ordine del giorno, ogni luogo sfruttabile fu colonizzato con un insediamento permanente o temporaneo. (Ibidem, p. 12)

Insomma, ci sarebbe una chiave di lettura del fenomeno dello spopolamento non così caratterizzata dalle equazioni abbandono-degrado ambientale, presenza umana-manutenzione armonica del territorio ecc.

Leggete, ancora citando il Baccichet, il seguente passaggio che riflette un punto di vista non ancora condizionato dall'odierna retorica dell'abbandono; direi, almeno apparentemente, più obiettivo ed equilibrato:

Sul finire degli anni Trenta, allorquando il fenomeno dello spopolamento iniziava ad interessare sociologi e urbanisti, c'era chi considerava questo fenomeno un elemento di riequilibrio. Nel 1941 De Simoni (De Simoni G., 1941) evidenziava come le Alpi risultassero essere le montagne più popolate. In questa prospettiva "l'emigrazione fu un correttivo temporaneo, l'esodo soltanto può rappresentare il rimedio definitivo". Continuava De Simoni sostenendo l'esistenza di uno "spopolamento" potenziale e che, nella realtà, è poi un vero e proprio sovrappopolamento, fenomeno che solo apparentemente è opposto al primo mentre ne è la premessa. (Ibidem, p. 15)

Una riflessione come quella testé riportata si applica naturalmente alla situazione di quegli anni di prima industrializzazione e conseguente attrazione delle genti alpine verso le pianure. Vi si legge sottesa un'altra retorica, allora nascente: l'implicito auspicio che le genti di montagna lascino i paesi per porre la loro forza lavoro a basso costo al servizio del nuovo sviluppo industriale.

Ciò non di meno, appare plausibile il contesto di sovrappopolamento e il conseguente sovrasfruttamento del territorio montano con le relative conseguenze in termini di degrado ambientale: sfruttamento intensivo delle foreste, sovrapascolo, dissodamento di pendii con conseguente aumento dell'impeto e della capacità distruttiva senza precedenti delle acque meteoriche. Siamo a un punto di vista opposto rispetto a quello di chi assume l'abbandono quale causa di ogni degrado.

Temi critici che l'odierna retorica del ritorno alla montagna non sembra tenere in considerazione, da una parte comprensibilmente, essendo la situazione dei territori montani, oggi, esattamente all'opposto di quelle di quei tempi di sovrapopolamento; d'altra parte, però, trascurando il fatto che nel caso di un ritorno ai territori montani, con le loro fragilità (che tali sono, sempre, dal punto di vista della presenza antropica), presenze anche molto più esigue di popolazione basterebbero a mettere in crisi quegli ecosistemi di altura, se si considerano i bisogni enormemente accresciuti dell'uomo moderno, l'impatto amplificato a dismisura delle tecnologie di cui questi si avvale, rispetto ai montanari d'antan, alle loro frugali economie di sussistenza, ai loro bisogni essenziali e neppure, a ben vedere, completamente soddisfatti all'interno dei territori di insediamento comunitario (si pensi, intendo dire, ai lunghi periodi di permanenza emigratoria nelle pianure dei lavori stagionali oppure, dalla metà dell'Ottocento, al trasferimento nelle terre d'oltreoceano di porzioni consistenti di popolazione).


7. Queste considerazioni implicano una diversa rappresentazione della presenza umana abitante il territorio, potremmo dire un'introiezione, all'interno del progetto di riabitare, del suo opposto, ovvero di quella scarsità di presenza abitativa oggi letta esclusivamente quale criticità e invece elaborabile in termini di valore o di rivalorizzazione alla luce di diversi parametri di socialità non necessariamente, o solo parzialmente riproducenti le forme antiche, conosciute, rimpiante o maledette, di relazione umana: quelle della società contadina tradizionale, impostata sulla famiglia patriarcale, sulle distanze e relazioni dettate dalla struttura socio-economica della piccola proprietà della montagna, sulle ritualità e le forme necessitanti della convenzione e del rito; ma anche quelle dei modelli urbani, tecnologici, burocratici ed economici, superabili forse, le une e le altre, in forme di nuova convivialità informale che attingano a quelle forme di vita e gestione dei beni e dei tempi comuni già presenti in quel mondo antico, forse rivitalizzabili nell'incontro con quanto di valore ha prodotto in termini di umanità, varietà e apertura al possibile relazionale, la società urbana moderna e post-moderna; ma soprattutto forme di reinvenzione e trasvalutazione dei parametri di benessere e dei valori imposti dal consumismo: concetto ormai logoro, è vero, tanto da essere ormai lasciato da parte o pronunciato con un certo imbarazzo, ma solo perché mutato in complessità e nelle forme del suo manifestarsi, non nella sua sostanza; solo perché una certa letale rassegnazione ci impedisce oramai di concepirne il superamento se non in pochi idealistici slanci di pochi. (Un discorso che credo abbia molto a che fare con il concetto di mente locale elaborato dall'antropologo Franco La Cecla, al pari del secondo tema, del perdersi, di un suo libro precedente [2]).

Così, mi pare molto pericoloso rimuovere il tema dell'impatto potenziale di quel ritorno alle montagne così universalmente e sommariamente auspicato dai più vari soggetti sociali, culturali, politici, imprenditoriali, e così emotivamente e sentimentalmente propugnato quale unica possibile sorte delle terre di altura, affinché possano sottrarsi ad un drammatico destino di abbandono.

Quale ritorno? E a fare cosa e come? Queste sono le domande usualmente eluse.

Impiantare vigne e noccioleti nei terreni oggi incolti e invasi da rovi in evoluzione verso nuove formazioni boschive e un tempo terrazzati e coltivati a cereali, fagiolane, patate. Potrebbe sembrare a molti una buona idea, tranne che (ammesso che tali colture corrispondano ad un ritorno di abitanti nei territori interessati) a farne le spese sarebbe la qualità del suolo e delle acque, se — come avverrebbe nella maggior parte dei casi — venisse fatto uso di diserbanti e concimi chimici. E anche nell'ipotesi che il tutto avvenisse sotto il segno del biologico, il determinarsi di monocolture porterebbe comunque a un drastico impoverimento della biodiversità e della complessita ecosistemica di vaste porzioni del territorio. Ricordiamoci che il suolo agricolo non è equiparabile al suolo naturale, soprattutto se trattato con prodotti chimici e mezzi meccanici altamente impattanti. Le monocolture non sono mai propriamente biologiche, neppure se non fanno uso di prodotti chimici, perché non biodiversificate.


8. In estrema sintesi, il giudizio delle culture egemoni sugli effetti della presenza e dell'attività del mondo contadino e pastorale sull'ambiente naturale nel corso della storia è stato quasi sempre di decisa condanna: a contadini e pastori, come dimostrato da una vastissima letteratura, vengono attribuiti, pressoché nella loro totalità, gli effetti di degrado ambientale e territoriale su di un ambiente naturale pensato in una sua naturalezza originaria o comunque in una sua condizione indeterminata di anteriorità rispetto all'azione umana. Con la contraddizione palese che i dotti e feroci critici dell'opera contadina e pastorale provenivano poi da quelle classi egemoni che traevano il loro sostentamento e i loro profitti proprio dallo sfruttamento intensivo delle risorse del suolo e dall'utilizzo del plusvalore commerciale e fiscale.

Salta subito all'occhio, comunque, il rovesciamento di prospettiva che fa sì che l'odierna retorica attribuisca invece al mondo agro-pastorale del recente passato la funzione di custode e manutentore degli equilibri geomorfologici e idrogeologici degli ambienti naturali, in particolare della collina e della montagna.

Le due opposte retoriche, come tutte le retoriche, poggiano su forzature argomentative, su occultamento di argomenti e di fatti. I potenti del passato tutelavano le foreste dai bisogni di terreni e pascoli dei contadini, ma i grandi diboscamenti per i cantieri navali delle serenissime repubbliche marinare o per alimentare fornaci e ferriere rispondevano agli interessi di gruppi di potere economico e politico e non certo a quello delle comunità contadine; l'odierna enfasi sull'equilibrio idrogeologico del mondo contadino d'antan, nell'esaltazione di ciò che è irrecuperabile in quelle forme alla luce dei nuovi bisogni e delle nuove strutture sociali, nasconde pretestuosamente il vuoto di progettualità di attori politici che non sono in grado di elaborare la complessità del tema, né, tutto sommato,, interessati a farlo, traendo spesso profitto da quei capitali istituzionali essi pure orientati verso un utilizzo formalistico e retorico (e proficuo per pochi).

In entrambe queste due contrapposte retoriche, la grande rimossa è la natura in quanto tale, non come nozione astratta, ma nelle sue funzioni biologiche ed ecosistemiche, all'interno delle quali l'uomo si colloca come soggetto storico, il che non esclude, ma anzi sottolinea, la sua dimensione di naturalità, prioritaria e fondante rispetto alle strategie di attivazione produttivistica.


9. Perché il concetto di abbandono e rinaturalizzazione degli ambienti un tempo coltivati non potrebbe interagire dialetticamente con quello di ritorno e recupero degli stessi, quando una in fondo semplice analisi delle mutate condizioni storiche porterebbe senza gran sforzo argomentativo a tale sintesi? Ovvero a concepire una situazione in cui il coltivato (un tempo eccessivo) e l'incolto (oggi eccessivo) concorrano a determinare un quadro ecosistemico fondato sull'armonizzazione delle due polarità.

Sorge il sospetto che la ricerca storica, archeologica, paesaggistica, con i suoi indubbi meriti scientifici, soggiacia un po' troppo a una visione, per così dire, popolare, mass-mediatica, semplificante, di un passato dove tutto era saggezza e cura, e un presente dove le forze cieche della natura (che poi neppure natura vera è — ci si dice — improntata com'è da millenni dall'opera dell'uomo) cancellano i paesaggi storici, quasi che questi non fossero, appunto, storici, soggetti da sempre a svariate trasformazioni, e tra queste trasformazioni non possa rientrare, con le sue ragioni, anche la natura, a riconnotare spazi e funzioni ecosistemiche al di fuori dei parametri antropocentrici e delle categorie culturali e psicologiche del dominante ordine paesaggistico, turistico e produttivistico.

È difficilmente confutabile il fatto che da secoli o millenni il rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale è stato un rapporto di sfruttamento economico finalizzato alla sussistenza (per le comunità locali) o all'accumulo di ricchezza (per i grandi possidenti e i potenti dell'epoca). Anche le più illuminate disposizioni atte alla conservazione dei patrimoni (patrimonio, appunto) naturali furono comunque sempre finalizzate alla pianificazione migliore (o ritenuta tale) del loro usufrutto.

La consapevolezza del valore naturalistico in sé era presente solo in pochi spiriti illuminati e per lo più declinata in termini di valore spirituale, mistico, estetico, poetico. La visione produttivistica degli ambienti naturali perdura con pieno vigore anche nei nostri tempi, e anzi sembra trarre ulteriore alimento proprio dalla retorica dell'abbandono.

Come si è visto, tale visione alligna sia nel dire comune sia nell'analisi degli studiosi del territorio, mentre sembra che la considerazione dei valori ecosistemici in sé degli ambienti naturali (e della loro funzionalità alla vita degli individui e delle comunità, al di fuori di forme di sfruttamento e attivazione economica) sia confinata alla sensibilità di naturalisti, escursionisti consapevoli e amanti della wilderness.

In realtà non c'è ragione che tale frattura esista. Oggi, a fronte dell'emergenza ambientale planetaria da tutti (o quasi) riconosciuta, dovrebbe essere un passo quasi automatico assumere la natura e le sue manifestazioni ambientali e paesaggistiche all'interno di un quadro di armonizzazione tra funzioni ecosistemiche spontanee degli elementi naturali e utilizzo ecologicamente sostenibile degli stessi (agricoltura, pastorizia, selvicoltura naturalistica), due aspetti egualmente indispensabili per l'abitare (o meglio forse: il vivere) umano nel mondo.


Dovrebbe essere un concetto acquisito e metabolizzato culturalmente il fatto che un arbusteto di invasione rappresenta un habitat per uccelli e insetti impollinatori, non un terreno sporco, sottratto all'utilizzo dell'uomo, sprecato, ma al contrario, di utilità fondamentale per la nostra stessa specie; e la rinaturalizzazione del territorio parte della sua storia, nei suoi molteplici aspetti e molteplici implicazioni, fondamento, conditio sine qua non, di un futuro nuovo e antico abitare.

Eppure la percezione del processo di rinaturalizzazione delle alte terre come di una catastrofe (o apocalisse, in senso demartiniano), umana, sociale ed anche ecologica, non è priva di fondamento, considerando la scomparsa di antichissime forme di presenza e identità culturale di comunità organizzate intorno a valori, saperi e tradizioni antichissimi, come pure di habitat ed ecosistemi risultanti dalle profonde modificazioni dell'ambiente naturale operate da quelle stesse comunità, come i prati-pascolo, i castagneti, le fasce terrazzate là dove erano macchie e foreste.

Bisogna tuttavia, a mio vedere, chiedersi se questi valori, saperi e tradizioni sarebbero sopravvisuti al sopravvivere di comunità presenti sul territorio nelle nuove forme della modernità. D'altra parte, questo processo di rinaturalizzazione, se rappresenta una catastrofe, cioé — etimologicamente — un rivolgimento o sovvertimento di quell'ordine antichissimo, esso non ne è la negazione assoluta giacché al suo interno custodisce le condizioni per un ritorno di quello stesso ordine in forme diverse, non più quelle segnate dal bisogno di ricavare il massimo dell'utile dal suolo e dal territorio, ma quelle, ancora da elaborare, forse da inventare (raccogliendo, custodendo, salvaguardando anche la più minuta testimonianza di quelle antiche forme di vita e cultura), di un vissuto che in sé accolga e armonizzi in un nuovo equilibrio le ragioni profonde dei processi spontanei di natura e quelle, altrettanto potenti, delle umane istanze culturali.

Così anche risolvendo una falsa e pericolosa contrapposizione tra i processi naturali spontanei e l'intervento dell'uomo nei confronti di quelli, non più volto a domarne le forze, ma ad assecondarle con nuovi criteri di progetto e di azione.

Così che da questo risalti in tutta evidenza la vera contrapposizione esiziale, la nuovissima catastrofe (e questa sì, apocalisse nell'accezione più propria e drammatica del termine) che già l'uomo sta fronteggiando senza che si profili all'orizzonte un livello di consapevolezza anche lontanamente sufficiente ad opporsi a questo stare, a questo agire, scellerato e nemico, nel mondo e nella natura.

Paolo Ferrari Magà


Note

1. Il rimando al concetto di crisi di presenza come pure all'altro caposaldo concettuale del pensiero demartiniano (l'Apocalisse) mi è stato suggerito (o favorito) dalla studiosa Amina Bianca Cervellera, impegnata in una ricerca che credo abbia molte e stimolanti affinità con queste mie note. Per il pensiero di Ernesto De Martino e il concetto di crisi di presenza si veda almeno Morte e pianto rituale: dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1983.

2. Franco La Cecla, Mente locale: per un'antropologia dell'abitare, Eleuthera, Milano 2015; Perdersi: l'uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 2000.

 


Discorso e retorica dell'abbandono = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori — <https://www.appennino4p.it/retorica.htm> : 2022.02 -