Il paese di Romagnese sorge nell'alta val Tidone, a 600 metri sul mare, ma il suo territorio comprende vaste zone boscose che salgono oltre i 1000 metri verso i monti Pietra di Corvo, Penice, Alpe e Calenzone; le frazioni, numerose ma piccole e piuttosto distanziate fra loro, hanno conservato un aspetto interamente rurale, con molte case in pietra a vista, spesso ben ristrutturate dai proprietari.
A Romagnese si è conservato, unico caso in tutto il territorio delle Quattro Province, un ciclo pasquale completo, commisto di elementi sacri e profani. I riti della Pasqua hanno inizio il Giovedì santo con la processione che parte dalla chiesa parrocchiale e raggiunge l'oratorio di Casa Picchi, al seguito di un penitente incappucciato e anonimo che porta una croce di legno alta tre metri, simboleggiando l'ascesa di Cristo al Calvario. Il Venerdì santo fanno la loro comparsa i falò rituali che illuminano le tenebre serali in vari punti della valle quando la processione con il Cristo morto fa il giro del capoluogo. La sera e la notte del Sabato santo è la volta della questua itinerante e canora che avviene con modalità del tutto simili a quelle dei cantamaggio, ed è finalizzata alla raccolta delle uova necessarie per cucinare le frittate che costituiscono il pasto collettivo che sancisce e suggella un ciclo di eventi di alto valore comunitario.
Se i canti di questua del Sabato santo, che pure alludono esplicitamente all'avvento della Santa Pasqua, rappresentano un'evidente deviazione dallo spirito liturgico proprio della festività religiosa, a favore di quel naturalismo conviviale che caratterizza il mondo contadino, non del tutto scevri da contaminazioni profane sono neppure i due giorni precedenti. L'identità celata del penitente preposto al trasporto della croce durante la processione del Giovedì santo era in passato minacciata da tentativi di disvelamento da parte dei giovani del paese, prima
che la processione partisse, secondo una logica non poi così dissimile da quella che, in certi carnevali, pone in atto strategie di riconoscimento dell'identità delle maschere. Anche i falò che ardono la sera del Venerdì santo in più punti della valle, accendendosi in successione al passaggio della processione, erano animati dalla stessa vis competitiva sottesa alla costruzione ed accensione dei falò carnevaleschi. Ogni gruppo impegnato nell'innalzamento delle pire ambiva a che la propria fosse l'ultima a spegnersi, e a tale scopo si ricorreva all'astuzia. All'avvicinarsi della processione si simulava l'accensione del proprio falò bruciando un po' di paglia, in modo che la frazione che sarebbe stata successivamente raggiunta, se impossibilitata a controllare direttamente la posizione dei processionanti, fosse tratta in inganno ed accendesse anzitempo la propria pira.
«Sui falò del venerdi c'era una competizione su qual era il più bello, il più alto al momento dell'accensione, e quello che sarebbe bruciato più a lungo. Ora i falò si fanno ancora, ma lo spirito competitivo è un po' sfumato. Perché il proprio falò fosse il più bello si doveva raccogliere più materiale degli altri e ciò avveniva in due modi: uno ufficiale e uno ufficioso. Il primo consisteva nell'andare a chiedere in giro per i paesi paglia, fascine, e tutto quello che potessero darti da bruciare. Il modo ufficioso consisteva nel girare la sera a "fregare" fascine specialmente quelle di vite. Anni fa tutti avevano la vigna e la potavano. Vittime dei "furti" erano spesso le persone che durante il giro ufficiale di giorno erano state poco generose nelle donazioni. C'è da dire che tutti sapevano che le fascine lasciate incustodite avrebbero fatto quella fine e chi non le portava a casa forse voleva lasciare il divertimento di andarle a rubare ai ragazzi che giravano la sera. Quando ho iniziato io a fare falò (avevo 10 anni) non si andava già più in giro di notte, e i veterani del falò ci raccontavano le classiche storie del tipo: "un anno avevamo tremila fascine..." In realtà poi le razzie si limitavano a qualche centinaio di fascine di vite che comunque nessuno avrebbe utilizzato perché non vanno bene per fare il pane e nemmeno per accendere la stufa.» [Alessandro Castagnetti]
Della processione del Venerdì santo, con la sua cornice di falò ardenti, troviamo nel testo di Enrico e Milla Crevani la seguente descrizione:
"Il Venerdì santo, a sera, mentre per le vie del borgo si snoda la processione con la statua del Cristo morto, e finestre e balconi si inghirlandano di luci, qua e là nei punti dominanti della valle, si accendono giganteschi falò, preparati con grande entusiasmo dai ragazzi dei vari paesi per fare luce al passaggio del Redentore. Spesso le grandi fiammate, disposte anche a forma di enormi croci molto suggestive sul nero tappeto dei campi, sono alimentate, per una maggiore durata, da gusci di chiocciole imbevute di sostanze infiammabili". [p. 82]
Gli autori riportano un'altra usanza praticata a Romagnese, anch'essa relativa al Venerdì santo e facente capo a quella tipologia di pratiche apotropaiche disseminate nelle scadenze calendariali cruciali del mondo contadino:
"Sempre il Venerdì santo, le donne usavano un tempo raccogliere scarpe vecchie, ciabatte, zoccoli e bruciarli: il fumo avrebbe tenuto lontano le bisce per tutto l'anno." [p.82]
Romagnese è l'unico paese delle Quattro Province dove si svolga attualmente un rito di questua nei giorni di Pasqua e non all'avvento di maggio, e questo nonostante la distanza dalla collina alessandrina, dove è diffusa la pratica del "cantar le uova" nel corso della Settimana santa.
Il paese si trova ai confini tra le province di Pavia e Piacenza. In posizione intermedia tra le due aree è Rocca Susella, a 548 metri sul mare nella valle Ardivestra, fra le colline dell'Oltrepò Pavese, dove si svolgeva invece ai primi di maggio una Santa Croce, recentemente rievocata anche per iniziativa del giovane sindaco. Citelli e Grasso [I rituali sacri e profani dell'Oltrepò pavese, Pavia e il suo territorio, Silvana editoriale, Milano 1990, p. 355-380] riportano un canto non più in funzione raccolto a Godiasco nella bassa val Staffora che, secondo gli autori, potrebbe costituire "il limite orientale delle forme di questua pasquale in uso nell'Astigiano e nell'Alessandrino" al loro incontro con il modello del tipo "Calendimaggio", proprio della montagna piacentina e ascrivibile alla famiglia del "maggio lirico profano" diffuso dall'area prealpina del Cusio, Verbano e Ceresio fino all'Appennino centrale, con una parentesi in corrispondenza dell'Appennino tosco-emiliano dove prevalgono il maggio drammatico e lirico-sacro.
Secondo Citelli e Grasso, la questua di Romagnese, come gli analoghi canti della montagna pavese-piacentina, potrebbero risultare dalla "sovrapposizione e contaminazione reciproca dei due modelli-base" del "cantar le uova" e del "Carlin di maggio". Qui il canto di questua prende il curioso nome di Galina griza ("gallina grigia"), dalle immagini concrete con le quali i suoi primi versi annunciano l'arrivo della primavera:
Süza süza, gh'è chí 'l galante
de la vostra galina griza.
E la negra, e la bianca
püra che la canta [bis].
E gh'è chí la Santa Pasqua
con l'erba e coi bei fiori [bis],
e con l'erba e coi bei fiori
e la fresca rugiada [bis].
È venuta d'una brinata
e l'erba la si n'è 'ndata [bis].
Ed è venuta d'una rugiada
e l'erba l'è ritornata [bis].
In co de l'orto gh'è fiorí la fava,
dentro dentro in questa casa c'è la gente brava [bis].
E se lei la sarà brava
la mi darà le uova [bis].
E dami delle uova
della vostra gallina [bis].
In co de l'orto gh'è fiorí la rosa,
dentro dentro questa casa c'è la mia morosa [bis].
In co de l'orto gh'è fiorí la vessa,
dentro dentro questa casa c'è la mia belessa [bis].
Met la scala al casinôt,
öv dei zü a vot a vot [bis],
meta la scala a la cascina,
öv dei zü a la ventina [bis],
La luna, la luna cavalca i monti
questa l'è l'ora di fare i conti...
e una micca e una rubiöla
la farízam föra [bis]!
E ch'la ma scüza sciura padrona
sa l'um cantà da spresia [bis],
la cantrum mej dal vegn indré
suta la sua finestra [bis].
Un testo del canto e la notazione musicale sono riportati in uno studio dedicato al paese di Enrico e Milla Crevani [Romagnese e la sua storia, la Nazionale, Parma 1970]. Citelli e Grasso [1987] hanno registrato alcuni cantori delle frazioni che ne eseguono qualche strofa, e riportano che "in passato tutte le quaranta frazioni di Romagnese riuscivano ad organizzare una propria squadra di questuanti; le compagnie si ritrovavano una settimana prima di Pasqua per decidere il percorso e per provare la canzone".
Nel 2005 il gruppo Voci di confine, comprendente diversi elementi della zona di Romagnese, ha inciso un'esecuzione dell'intero canto nel suo secondo disco, intitolato appunto "La galena grisa". È interessante osservare che il loro giovane leader, Paolo Rolandi, abbia fatto molta fatica a convincere i cantori ad eseguire il canto per il disco: a loro infatti la cosa sembrava fuori luogo, perchè la Galina griza si canta solo a Pasqua!
La tradizione a Romagnese è infatti ancora ben viva: la sera del sabato santo, attorno alle 19, i vari cantori, che qui non portano vestiti particolari, si ritrovano in paese e si organizzano, suddividendosi in diverse squadre, ciascuna delle quali batterà un gruppo di frazioni. Ogni gruppo è accompagnato da un fisarmonicista: oltre allo stesso Paolo Rolandi, originario della zona e figlio di uno dei migliori cantori, per accompagnare le altre squadre vengono chiamati appositamente altri suonatori. Il gruppo che seguiamo comincia dalla frazione di Praticchia, alle falde del monte Pietra di Corvo, dove gli abitanti lo attendono in più di un'aia per offrire a tutti vino, salame, focacce, frittelle e altre prelibatezze. Dopo qualche momento silenzioso, come sospeso nel tempo, ecco che i cantori si sono radunati e improvvisamente attaccano il canto. Ecco, anche quest'anno è Pasqua, è arrivata la Galina griza... In ciascuna strofa, il primo verso viene sempre intonato da un leader, che ha soprattutto il compito di ricordare il testo, al che gli altri, aiutati anche dalle rime, lo seguono formando tutto il coro per i versi successivi. Nelle parole di uno dei partecipanti:
«Questo genere di canto è turnificato: di tutti quelli che la sanno parte prima uno, poi l'altro, poi l'altro... poi magari sette o otto partono tutti a fare la strofa.»
Uno dei cantori porta con sé una cesta di vimini (a cavâgna), nella quale è incaricato di raccogliere le eventuali offerte dei padroni di casa, un tempo uova e oggi anche denaro. Durante il giro un cantore sulla settantina ci racconta:
«Una volta si andava in giro per tirar su le uova, poi le vendevamo per fare qualche cento lire in tasca... In paese c'era la bottega, quando arrivavamo lí c'era il portatore della cesta, andava dentro, allora si mettevano lí, le contavano, ci dava il grano e lo metteva in tasca. Allora si stava in giro dalle sei di sera alle sei del mattino. Tutto a piedi. Si tirava su uova, c'era solo uova. Era il sabato di Pasqua. C'era sempre il fisarmonicista che accompagnava... [...] Adesso... si fa per rispettare la tradizione. Non c'è più nessuno che ha bisogno di quattro uova o di due-tre euro. [...] In un paese magari passavano quattro o cinque squadre. Ti davano magari due o tre, dopo all'altra squadra gliene davano altre due o tre... C'eran quelli che non ti davano niente, c'eran quelli invece che erano gentili...
Quando io avevo 25-30 anni si è persa un po' questa usanza, negli anni Settanta-Ottanta è cominciata l'era industrializzata... Andavano a ballare magari altrove... Poi l'abbiamo ripristinata dieci anni fa o quindici... Però è un po' un surrogato questo. In tutte le case ci abitavano come minimo tre o quattro persone, difficilmente ne trovavi due. Una famiglia di almeno due figli... [...] C'erano quelli che per non venire giù lasciavano il cestino da di sopra, perchè era tardi. Me lo raccontava mio padre. Con noi bambini facevano cosí, perché poi ci andavamo anche noi, magari verso sera, a fare il giro con gli altri più grandi. [...] In tutte le frazioni c'era uno o due che suonava la fisarmonica. Solitamente c'era questa usanza, che come uno imparava a fare il sarto o il barbiere, imparava a suonare. Adesso purtroppo, via questi due o tre che son rimasti, non c'è più nessuno che suona la fisarmonica. Peccato, il paese si è spopolato, se pensiamo che Romagnese aveva 3300 abitanti circa negli anni Sessanta, e poi negli anni Ottanta si son ridotti a circa 1050... Io mi ricordo che andavo al seggio e so gli elettori che c'erano... Adesso siamo circa 700. Tutti sono andati a Voghera, Pavia o Milano negli anni dell'industrializzazione.» [Angelo Lanza?]
Ci si sposta poi in auto (ma una volta, naturalmente, si faceva tutto a piedi, impiegando quindi molto più tempo) alle frazioni vicine. A Grazzi c'è la casa di Felice, un signore sulla settantina che a detta dei presenti è l'unico a conoscere la "vera" Galina griza, ossia quella cantata alla maniera di un tempo, con una melodia un poco diversa. Mentre si beve e si mangia in casa sua, Felice viene quindi richiesto di intonare il canto. Il coinvolgimento ha successo, perchè l'anno dopo lo troviamo nella squadra dei cantori fin dalla partenza. Tra le altre strofe, che ad eccezione della prima si succedono senza un ordine rigidamente fisso, ama eseguirne una che abbiamo sentito solo da lui, interessante per la particolarità di esprimere il punto di vista del padrone di casa, invece di quello dei cantori come negli altri casi, forse a testimonianza di un'antica esecuzione delle strofe in forma di dialogo:
Se mi cantate la Galina griza
io vi darò il formaggio
della vacca mia.
A corte tappe si ridiscende gradualmente verso Romagnese, incontrando gruppi di case sparse. L'ora è ormai tarda e i cantori, fermatisi per una delle soste, si consultano se sia il caso di cantare o meno: qualche famiglia infatti non è in casa, altre potrebbero non essere interessate... Infine ci si porta sotto la villetta di una famiglia conosciuta e si prova a rompere il silenzio: Siza siza gh'è chi 'l galanto... Inizialmente sembra non succeda nulla, ma infine ecco che si è accesa una luce, qualcuno apre una finestra dietro cui forse era già andato a dormire. I cantori continuano e una donna assonnata viene alla porta con una bottiglia di vino, seguita dal marito con dei bicchieri. C'è anche un'offerta, ma dov'è finito adesso il cantore con la cesta? "Cavâgna!!.." si chiama in direzione della strada buia.
Osserviamo che il rifiuto di un'offerta ai cantori era un tempo stigmatizzato con molta durezza, cosa che oggi non avviene quasi più se non con accenni benevoli e poco insistenti. D'altra parte va detto che nei tempi della povertà contadina, la questua non aveva solo una funzione simbolica, come avviene oggigiorno, ma rappresentava la possibilità di consumare un buon pasto nutriente dopo il periodo di ristrettezze della Quaresima. Cosí scrivono i Crevani nel testo citato:
"I menestrelli ricevevano una volta, in cambio della gratuita serenata, molte uova, che, cotte in una gigantesca frittata, venivano consumate poi in allegra baldoria alla fine del giro. [...] E guai se qualcuno si arrischiasse a fare il sordo o a non svegliarsi! Tutta la notte sentirà sbraitare sempre più forte il consueto ritornello... con qualche variante:
In co dell'orto gh'è fiorí la rama,
dentro dentro questa casa gh'è la gente grama
Se la padrona non mi da il cocon
"
crapa la ciosa e tüt i so [ciuson]
Ripassando da Romagnese, si scende ora in una zona oltre il torrente, e a Gabbione si sosta a lungo in un'osteria ancora aperta. Gli uomini, sedutisi attorno a qualche tavolino con gli immancabili bicchieri di rosso, sono ora in vena di intonare potenti canti del ricco repertorio locale. La presenza estemporanea di un piffero, quello di Fabio Paveto di Daglio (val Borbera), desta subito interesse, e i pezzi che infine il suonatore si convince ad eseguire riscuotono un grande successo: anche se qui il piffero non è più presente, evidentemente le sue modalità sonore incontrano il gusto popolare dei cantori. D'altra parte il piffero era presente nella tradizione locale, anche in funzione di accompagnamento del corteo nuziale secondo quanto riferito nel succitato testo di Enrico e Milla Crevani [p. 84], e Citelli e Grasso hanno raccolto testimonianza della partecipazione alla Galina griza dei fratelli Bartolomeo e Carlo Mori di Casa Villa, suonatori rispettivamente di musa e piffero, attivi fino ai primi decenni del secolo. È inoltre ricordata, sempre secondo quanto riferito dai due ricercatori, la partecipazione al rituale dei pifferai Fiorentino Azzaretti (1879-1953) di Pregola e Vittorio Zanni (1899-1982) di Costa [p. 380]. Citelli e Grasso riferiscono anche della presenza di fisarmonica, violino e viulon, con i quali si eseguivano talvolta motivi da ballo durante le soste [p. 356].
Dopo mezzanotte, le diverse squadre di cantori convergono nella piazza di Romagnese, dove altra gente li aspetta. Nella sala adiacente sono state preparate delle tavolate, e quando la gente è affluita, mentre qua e là si alza qualche canto, vengono servite teglie con diverse varietà di frittata. Questo piatto è infatti il modo più naturale di condividere con tutti i presenti il frutto della questua. La festa proseguirà, per chi resiste, fino a notte inoltrata. Le uova della questa tornano protagoniste in funzione di cibo rituale il mezzogiorno del giorno di Pasqua quando, secondo quanto riportano i Crevani, era usanza consumare la "frittata rognosa", ovvero una frittata confezionata con l'aggiunta di salame.
Paolo Ferrari e Claudio Gnoli con la collaborazione di Alessandro Castagnetti
Il ciclo pasquale di Romagnese e la Galina griza = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori -- <http://www.appennino4p.it/romagnese.htm> : 2006.09 - 2009.08 -