Su richiesta dei redattori del sito, prendo la penna per riferire di come ho fatto la conoscenza delle Quattro Province. È avvenuto nell'agosto 2010, per le vacanze. Il lettore troverà qui il mio vissuto e la sincerità della mia testimonianza.
È al festival del Grand bal de l'Europe a Gennetines, in Francia, che scopro le musiche e le danze tradizionali italiane. Frequento gli stage di danza di Banda Brisca. Ci vado dapprima perché trovo che la musica sia allegra, gioiosa e in séguito perché c'è una danza che mi piace davvero molto: la polca a saltini. Banda Brisca è un numeroso gruppo di suonatori, ballerini e una traduttrice. Li si riconosce facilmente: hanno tutti una maglietta "Banda Brisca - staff". Sono come pesci nell'acqua a questo festival francese, dove una leggenda dice che gli italiani ci fossero già per la prima edizione nel 1990. Per giunta sono amici del mio gruppo folk francese preferito, i VAG. Le insegnanti di danza sono Ilaria e Rosy. Ilaria ha la pelle bianca come la neve [come direbbero le canzoni tradizionali francesi] e Rosy profuma di noce di cocco ed è sempre molto abbronzata. "Pumm tac tac, Pumm tac tac", è così che Ilaria ci insegna la pulsazione così particolare della polca a saltini. Bisogna sentirla in tutto il corpo. È facile da capire ma più difficile da mettere in pratica. Mi rendo ben conto di non avere ancora acquisito lo stile. E poi non vado più al festival di Gennetines, mi dimentico per un po' di Banda Brisca e della polca a saltini. Non corro il rischio di dimenticare le Quattro Province, perché di fatto all'epoca non faccio ancora il collegamento fra questo gruppo, questa danza e questo territorio.
2010: è il trentesimo ballo folk della nostra associazione coreutica nei pressi di Orléans. Per festeggiare questo anniversario propongo della musica allegra, chiaramente musica italiana! In gennaio decidiamo di mettere in programma, sulla base della loro fama, Stefano Valla e Daniele Scurati. Animeranno uno stage e un ballo, da noi, in maggio. È in questo momento che faccio il collegamento fra il territorio delle Quattro Province, il repertorio di danze — polca a saltini, alessandrina — e i musicisti: Banda Brisca e il duo Valla-Scurati. Comincio a fare qualche ricerca sulle Quattro Province. Dal punto di vista francese questa denominazione non significa nulla, e poco anche per le strutture turistiche italiane che interpello. Sono giunta perfino a chiedermi se non si tratti di un nome inventato di recente. Solo il sito internet "Dove comincia l'Appennino" mi dà informazioni concrete sull'identificazione culturale della zona.
Nel marzo 2010, per caso, Stefano e Daniele sono in Francia per uno stage, concerto e ballo, così ci vado per conoscerli prima della loro venuta a Orléans. Durante lo stage sono inizialmente meravigliata di non sentire musica dal vivo. Ma presto capisco che se Stefano insegna la danza non può suonare contemporaneamente il piffero, e che Daniele, alla fisarmonica, non può guidare la danza da solo. Questa musica si suona in due o non si suona. Nel corso del pomeriggio Stefano e Daniele non solo trasmettono un repertorio di danze, ma illustrano con passione le Quattro Province: la montagna, la gente, l'evoluzione della musica. Ascoltandoli penso a Yves Guilcher [famoso ricercatore di danze tradizionali] che racconta che, quando era giovane e accompagnava i suoi genitori nell'attività di documentazione, vedeva ballerini bretoni che avevano imparato a ballare per impregnazione [contatto prolungato con il proprio ambiente]. Ho l'impressione che Stefano e Daniele abbiano vissuto lo stesso tipo di apprendistato. Allora le Quattro Province sono una zona in cui la danza si pratica ancora in modo tradizionale? Questo mi intriga. A forza di aneddoti e testimonianze Stefano, con molto humour, conduce i corsisti nell'immaginario: ci troviamo tutti nel suo paese, a Cegni, e alla fine ho ben memorizzato la nozione che la valle Staffora è la più bella di tutte! Arriva il momento del concerto, e ci vado con qualche riserva, considerando che la musica da ballo è fatta più per essere ballata che per essere ascoltata. E là, seduta davanti a questi due grandi maestri, sono commossa dalla voce del piffero, sbalordita da tanta evidente complementarità fra gli strumenti, colpita da tanto omaggio alle loro radici e sfamata da tanto assoluto. Oltre ad essere allegra, quella sera, la musica delle Quattro Province è diventata per me una risorsa e una traccia indelebile di collegamento vivente fra ieri e oggi.
Maggio 2010, il nostro ballo animato dal duo Valla-Scurati è all'altezza delle nostre aspettative: una grande festa gioiosa, eccezionale, e per me la conferma che devo andare a ballare là, vedere la montagna, la gente e vivere la festa.
Preciso al lettore che non parlo italiano e non conosco l'ambiente montanaro.
Dopo una notte in treno arrivo a Milano. Sono le sei e mezza, abbiamo un'ora di ritardo ma a me la cosa non crea problemi. Il tempo è molto mite e luminoso sul piazzale della stazione. Le due statue di cavalli alati vegliano sui turisti. A quest'ora non c'è assolutamente traffico, mi passa davanti solo il tram. È una sola carrozza arancione, vecchissima e rumorosa. È così anacronistica, in questo ambiente dall'impianto moderno, che mi piace. Non riesco a noleggiare un'auto, perciò me la cavo in altro modo per avvicinarmi ai monti delle Quattro Province. Un po' di treno, un po' di taxi e arrivo bella stanca a Varzi. L'ufficio del turismo della cittadina è molto ben visibile, è arancione come il tram di Milano. All'ingresso sono seduti due anziani che discutono. Il loro italiano non mi aiuta, ma riesco a capire che gli indirizzi di strutture alberghiere che avevo trovato faticosamente su Internet non si trovano a Varzi, come dichiarato, ma a cinque, sette o dodici chilometri. Guardo la mia valigia con le rotelle, credo che ne abbia abbastanza di andare, e io abbastanza di trainarla. Sono le sei di sera, devo assolutamente trovare un alloggio a Varzi. L'albergo è pieno, mi indicano senza convinzione la gelateria dall'altra parte della piazza, loro fanno locanda. È la mia ultima speranza, quindi grande apprensione: sì, resta una camera, è mia. Che felicità.
Nella mia camera d'albergo, che porta il nome di "Quercia", c'è sul muro la riproduzione di una foto in bianco e nero del 1957: "Varzi: festa dell'uva". Vi si vedono in primo piano un pifferaio e un fisarmonicista. È davvero sorprendente che l'unica camera d'albergo libera di Varzi abbia questa foto sul muro. Non c'è casualità. Questo segno mi riempie di speranza per uno sviluppo positivo della mia permanenza. Sono venuta a scoprire un territorio portatore di danze e musiche tradizionali, ed ora so che troverò questo. Dopo una lunghissima notte riparatrice, faccio i miei primi passi per Varzi. È una cittadina tranquilla ma vivace che mi piace, con le sue strade pedonali, il suo centro storico, le sue facciate dai colori caldi e allegri, i suoi rumori di forchette nei piatti a mezzogiorno in punto. C'è un negozio di salumi caratteristico. I grossi salsicciotti stagionati chiamati salame, che assomigliano alla rosetta di Lione, sono appesi in vetrina, e all'interno del negozio è tutto buio. Poca gente parla francese: qui si parla italiano e basta. Scopro lo Staffora, sottile sottile sul suo ampio letto di sassi grigi spigolosi. Mi sporgo dal ponte per guardarlo e gli dico: «Allora, sei tu che dai il tuo nome a un'intera valle?!» Mi piacerebbe rivederlo in primavera quando è in piena e baldanzoso.
Vengo a sapere che i trasporti in corriera verso i paesi della montagna sono sospesi in questo periodo dell'anno, perché tutti sono in vacanza. Me la caverò dunque in altro modo. Di fianco alla pensilina scopro una macchina che non conosco: un distributore automatico di latte fresco. Trovo sia un'ottima idea. Devono dunque esserci degli allevamenti da latte nei dintorni di Varzi. In séguito ho letto un articolo su un giornale francese in cui si parla dell'introduzione, in Normandia, di questa "nuova macchina ampiamente diffusa in Italia". Ma torniamo a noi: se non posso andare in corriera alle feste paesane nei villaggi di montagna, mi rimane la soluzione dell'autostop. Questo mezzo di trasporto, inizialmente subìto, si rivela presto un ottimo modo di entrare in contatto con la gente di qui, e di capire e parlare italiano senza volerlo! La meta del giorno è Pian del Poggio. Dopo dieci minuti di attesa vengo raccolta per una prima tappa fino a Casanova Staffora, poi una coppia mi porta fino a Pianostano. Nel tono della voce della donna sento molto rimprovero e preoccupazione per me. Non le sembra normale che io sia là tutta sola, in mezzo al nulla. Sentirsi dire che conosco Stefano Valla la rassicura. In questi primi spostamenti in auto, mi rendo conto che la guida su queste strade strette e tortuose è cosa per specialisti, bisogna proprio esserci abituati. Io ne sarei stata capace? Da brava osservatrice che vuole rispettare gli usi locali, non allaccio la mia cintura di sicurezza.
In séguito le auto diventano molto rare, e allora cammino. Imparo i rumori d'acqua che scorre attraverso la roccia, la vegetazione, le salite e le discese, la valle e la cima. Sulla mia strada, in piena campagna, un grande manifesto arancione fosforescente è attaccato direttamente alla roccia, in corrispondenza di un incrocio. Si tratta dell'annuncio della festa del 21 agosto a Negruzzo. Alla fine vedo comparire in lontananza un paesino abbarbicato: è Casale Staffora, mi viene da sorridere. Appena prima di arrivarci mi riposo all'ombra, in un piccolo cimitero. Di là sento un gallo cantare e mi conforta udire questo segno di vita. Mi domando se sui monti ci sia stata in passato un po' di agricoltura, di allevamento. Arrivata a Casale, percorro la stradina principale. Da ciascun lato una panca, con delle persone anziane che parlano molto e rumorosamente. Per me è l'immagine tipica del sud. Attraverso questa guardia d'onore, tutti tacciono, e la discussione riprende non appena ho voltato loro la schiena. Riempio la mia bottiglia alla fontana e continuo il mio itinerario. Per arrivare a Pian del Poggio si sale, si sale, si sale... Non finisco più di arrampicarmi e credo che finirò per toccare il cielo. È la fine della giornata e il tempo sta cambiando rapidamente, il sole scompare e lascia il posto a una nebbiolina fresca. Sono le sei: assai stanca arrivo finalmente al paese, la civiltà. Composto di una chiesa moderna, quattro o cinque edifici residenziali, una drogheria, un bar-ristorante e una cabina telefonica, il paese in confronto agli altri mi sembra a dir poco strano e vuoto. Dei bambini si divertono nel parco-giochi, ecco qualcuno di rassicurante.
A portarmi qui è un concerto, quello di Andrea Ferraresi e Matteo Burrone, rispettivamente quindici e diciassette anni. Il primo suona il piffero, il secondo la fisarmonica. Sono attualmente i più giovani suonatori tradizionali delle Quattro Province e voglio conoscerli. Il concerto si tiene alle 21... nella discoteca! Davvero a Pian del Poggio passo di sorpresa in sorpresa. Anche per la cena sono stupefatta: fuori dal ristorante c'è scritto che è tutto esaurito. Ma da dove salta fuori tutta questa gente?! La sera è scesa e sono congelata. Non ho ancora imparato che di sera in montagna fa freddo, anche d'estate. Il pubblico arriva in giacca invernale e per i bambini berretto. Di sicuro domani mi metto un paio di pantaloni e un maglione. La discoteca di Pian del Poggio è senz'altro di mio gusto in quanto completamente straniata. Andrea e Matteo suoneranno la loro musica tradizionale sullo sfondo del muro dipinto di blu cielo con dei delfini che ridono. Mi sono seduta in prima fila, di fianco a una vecchia signora. Mi accorgo chiaramente che vorrebbe parlarmi, e anch'io le parlerei volentieri, ma c'è la barriera della lingua perciò non intavolo niente. Ci sorridiamo.
Finalmente il concerto comincia. Assaporo il momento in cui ritrovo questi strumenti e questa musica. I ragazzi inanellano pezzo su pezzo, come i grandi. È incredibile e favoloso. I suonatori sono a immagine dei propri strumenti. Andrea è riservato, ma la sua interiorità produce tutta la sua presenza. Matteo è sciolto e imponente come il mantice della sua fisarmonica. Credo che sia difficile suonare il piffero eppure, nonostante la giovane età, Andrea si assume tutto: qualità, difficoltà e tenuta. Riconosco il repertorio e anche l'interpretazione del loro maestro Stefano Valla. Questi giovani suonano e cantano come il duo Valla-Scurati. Ne sono contenta e allo stesso tempo turbata, perché non me lo aspettavo. E non posso fare a meno di riportare questa situazione alla mia esperienza personale. Io che cerco di liberarmi di qualsiasi modello, per cercare in fondo a me stessa ciò che sono veramente, ho davanti a me due persone che imitano, in modo eccellente, i loro modelli. È logico: gli allievi suonano come il loro maestro, è normale nella trasmissione di un repertorio e di una tecnica. Passata la sorpresa, mi dico che dopotutto sta solo ad Andrea e Matteo scegliere, con il loro libero arbitrio, il proprio stile di interpretazione. Poi penso che, se per adesso hanno bisogno di una guida, è giocoforza constatare che Stefano, con tutto il suo talento, càpita a proposito sulla loro strada. Applausi finali, io esprimo il desiderio che Andrea e Matteo trovino ognuno la propria creatività e si pongano a loro volta, con tutta la loro personalità, al servizio della storia e dell'evoluzione della musica delle Quattro Province; il tutto nella continuità della tradizione, alla quale è sempre possibile venire ad attingere. Presto recupero il mio letto. Oh che bel caldo che ci fa! Mi addormento chiedendomi se i pifferai siano capaci di leggere la musica.
Oggi vado a ballare a Cegni. È il paese di Stefano Valla e sono contenta di rivederlo, al pari di Daniele. Trovarsi là significa confrontare la propria immaginazione con la realtà. In effetti Stefano durante gli stage che anima in Francia parla spesso del suo paese, cosicché ci si forgia un'immagine del luogo. "Benvenuti a Cegni", così siamo accolti. È carino questo striscione di benvenuto. Mi domando se sia là in permanenza o sia un resto del Carnevale bianco che si è svolto tre giorni prima e che, a giudicare dai video su Internet, attira molta gente. Io vengo a Cegni per un evento più modesto e che mi corrisponde meglio. Si tratta di un ballo che sul sito web di Valla-Scurati è intitolato "Ca' del Jack". Ca' del Jack mi fa pensare a Black Jack! Non ho idea di che cosa possa significare. Aspettando il ballo serale visito il paesino. All'ingresso, nel parcheggio, ci sono delle auto immatricolate in Francia. Come me, altri francesi hanno risposto al richiamo di Stefano, e alcuni sono fedeli a Cegni da diversi anni. Riconosco dei volti visti al festival di danze di Gennetines.
Comincio la mia passeggiata dalla chiesa, poi la via bassa lungo la quale ci sono dei graziosi orti. Sulla destra partono perpendicolarmente alcune stradine in salita. Ne prendo una, poi giro a destra, avanti, un po' a sinistra, poi... mi ritrovo al lavatoio. Cegni è un gustoso dedalo, impossibile sapere se sono passata dappertutto, e comunque la cosa non ha importanza. Qui, con le case tradizionali in pietra, gli edifici uno contro l'altro, i cortiletti nei quali la gente vive, ci si sente molto vicini agli abitanti. È facile che ti salutino. L'insieme risulta affascinante. Toh: da una finestra scorgo un uomo seduto dietro lo schermo di computer. Ecco qualcosa che mi rimette a posto le idee: nonostante l'architettura tradizionale e l'organizzazione del paese sono pur sempre nel ventunesimo secolo e, a Cegni come altrove, si navigherà in rete e ci si iscriverà a Facebook.
Arrivo nel luogo della festa: la casa di Jack, la Ca' del Jack. Stefano e Daniele sono lì che fanno delle prove di sonorizzazione. Che emozione reincontrarli, io a casa loro. È sorprendente, mi immaginavo uno spazio molto più grande, per poter accogliere numerosi ballerini, e in realtà è piccolino. Si tratta di un'aia interna quadrata. Il terreno è in pendenza e in alcuni punti ci sono pietre che sporgono. Dà l'idea che qui siano riunite tutte le condizioni per mettere alla prova i ballerini! Questo mi stupisce ma mi piace molto perché, in questa Ca' del Jack, anche senza musica regna già un'atmosfera molto calda. Deriva dal fatto che lo spazio è piccolo e quadrato e dalla decorazione fatta di nastri colorati. Partono da un punto al di sopra del palco per divergere verso il fondo dell'aia e formare un tetto di colore sopra di noi. È bello. Un'altra cosa caratteristica è il palco. È abbastanza alto, un metro, e ridotto alla superficie minima per far stare i due suonatori sulla loro sedia. Mi fa pensare a una vecchia incisione di ghirondisti del Berry, appollaiati su un tavolo per far danzare una fila di donne di fronte a una fila di uomini, tutti pronti per una bourrée. Forse questa forma di palco è semplicemente il residuo di una pratica in acustico che abbiamo perduto. Cambia completamente il rapporto fra i suonatori e i ballerini. La comunicazione mi sembra più facile, ho l'impressione di un insieme in totale coesione.
È l'ora della cena, consumata nell'aia di Ca' del Jack e preparata dagli organizzatori. Credo ci sia una sorta di abitudine e molto compiacimento nel mangiare insieme prima di ballare. Arriva il momento del ballo. Che ore sono? Non lo so, è molto che non ho guardato il mio orologio, ma il sole è tramontato. Stefano è sul palco, dietro il microfono, pronto, aspetta Daniele che arriva sempre dopo. I ballerini ci sono, l'aia è piena. E io al mio primo ballo delle Quattro Province: riesco a ballare, sono contenta. La cosa difficile per me è girare al contrario nelle danze di coppia. Anche per il valzer, girare nel senso inverso delle lancette dell'orologio non è facile, perché noi nel folk francese non lo facciamo mai. Quello che qui è notevole e molto piacevole è che non c'è penuria di cavalieri! Infatti ben poche donne ricoprono il ruolo dell'uomo. Si può forse vederci il segno di una pratica tradizionale, e non di tempo libero scelta fra altre attività ricreative? Imparo anche che nel ballo tradizionale delle Quattro Province numericamente ci sono poche alessandrine, e molte polche a saltini, mazurche e valzer. Queste tre danze di coppia si susseguono sempre, e ho constatato che un cavaliere può tenere la sua ballerina per tutte e tre, ma non è obbligatorio. Esiste una regola? Forse semplicemente l'intesa fra le due persone. L'aia di Jack è piena di ballerini e di gente venuta a vedere, bere o parlare. Non c'è nessun ballerino nel passaggio quindi in teoria, anche se il luogo è piccolo, permette di contenere tutti i ballerini. La giga a quattro è lunga da preparare, dev'essere meno comune delle altre danze citate in precedenza. Poi c'è "Marcellina", la bella canzone. Se a Orléans ha avuto molto successo, tanto che in séguito mi hanno chiesto se riuscivo a trovarne il testo, non potevo immaginarmi che qui fosse altrettanto amata. Stefano canta, Daniele suona, i ballerini si fermano, si avvicinano al palco, si tengono per le spalle e tutti cantano in coro. Wow, che emozione! Mi piace concludere la narrazione di questo giorno con questa bella comunione attorno a Marcellina, che dopo la scrittura di questa canzone ha sposato il figlio del tenente e insieme a lui è molto felice.
La mia cameretta è confortevole ma male insonorizzata, e a qualsiasi ora vada a dormire vengo svegliata alle sette dal rumore delle auto e dei camion che rallentano nella curva, proprio sotto la mia finestra. Apro le persiane: un odore di frittura proveniente dalla via mi ridesta le narici piuttosto brutalmente. È venerdì e a Varzi è il giorno di mercato. L'atmosfera stamattina è completamente diversa, la grande piazza è invasa dalle bancarelle e c'è molta gente, non pochi pensionati, la folla è ciarliera. Io, bella tranquilla sotto la veranda della locanda che dà sulla piazza principale, faccio colazione e guardo questa agitazione. È un eccellente posto di osservazione. Sotto i miei occhi si trova un banco di chincaglieria coi suoi due venditori: un uomo e una donna. Sono terribilmente efficienti e si dividono i clienti, che hanno appena il tempo di aspettare. Una signora viene presa in carico dal venditore. La cliente sa chiaramente che cosa vuole, visto che ha già in mano una piccola casseruola. Dopo tre parole, il venditore le mostra l'esposizione delle casseruole grandi, e via: la cliente lascia il suo articolo e guarda quello che le viene proposto, poi il venditore la orienta sulle pentole multiuso. In meno di un minuto l'affare è fatto: lei se ne va con una multiuso di qualità professionale. Quel venditore deve venire da un'antica famiglia di mercanti veneziani, ne sono sicura. Faccio un giro del mercato sotto una pioggerellina, nel mio dialetto si direbbe che bérouasse, scarnebbia. Sui banchi dei fruttivendoli le pesche sono enormi, hanno una taglia doppia delle pesche francesi. Girando non trovo niente di tanto diverso da quello che conosco dei mercati francesi; a parte forse il fatto che il pescivendolo venda dei pesci impanati. Ah, sono loro che sentivo stamattina aprendo la finestra! Questa pioggerellina fine e questi pesci impanati mi fanno pensare ai film di Ken Loach.
Ma torniamo all'Italia e alle sue Quattro Province. La sera mangio in una specie di agriturismo con dei nuovi amici. Lì ho capito davvero che cosa vuol dire in Italia la parola menù, con antipasti, primo, secondo con contorno, formaggio, frutta, d... Basta, non ne posso più! Tra ieri sera a Cegni e stasera ho capito che qui, a tavola, ci sono due cose imprescindibili: il salame e i ravioli, e non sono dei Buitoni! Dopo cena, arriviamo di sera al piccolo borgo di Connio per andare al ballo che ha luogo una volta all'anno. Parcheggiamo l'auto sul bordo della strada. Mi piace essere qui, l'atmosfera di questa stradina, nel buio, dove si sente già la musica del ballo. C'è in me un'eccitazione come se andassi al ballo del 14 luglio [festa nazionale] nel mio villaggio natale, il ballo dell'anno. Seguo il movimento, risalgo un vialetto per arrivare nel luogo dove si danza, che assomiglia a un capannone agricolo: muri di cemento e lamiere sul tetto. Ah, decisamente il Connio ha tutto quel che ci vuole per piacermi. Il ballo è a pagamento, sicuramente perché, per una volta, non è preceduto da un pasto e quindi non c'è incasso. Vado all'interno. I neon danno una luce cruda che è quello che si addice perfettamente a questo luogo. Il tutto è rallegrato da ghirlande di bandierine colorate che partono da un pilastro posato proprio in mezzo alla pista di ballo. Il ballo è già cominciato, sono il giovane Fabio al piffero e l'anziano Andreino alla fisarmonica che guidano la danza, e in acustico se non vi dispiace. Tutti e due, cappello di feltro calcato sulla testa, sono seduti su un palco di calcestruzzo alto una cinquantina di centimetri. Una dozzina di coppie ballano il valzer. Sono rappresentate tutte le generazioni. Tutti sembrano conoscersi, forse sono tutti del Connio o degli immediati dintorni. L'atmosfera è semplice: musica, danza, uno spazio per bere un bicchiere. Qui è come se si dovesse semplicemente vivere il momento presente senza cercare nient'altro, solo esser qui insieme agli altri. Arrivano una mazurca, una polca, io guardo i ballerini, i giovani, i vecchi. Lì seduta, in questo posto fuori del comune, prendo coscienza di stare vivendo qualcosa di eccezionale, lo so. È qui che sento che la tradizione delle Quattro Province è una tradizione vivente, che arriva dalle generazioni precedenti e che si trasmette naturalmente attraverso il semplice contesto dei balli.
Sono stupefatta di vedere sette coppie ballare la povera donna. I giovani del Connio la ballano, ed è una cosa normale, hanno come esempio Giggi e sua moglie. Ho capito che questa danza fa parte delle tradizioni di carnevale, e mi stupisce che sia ballata al di fuori del suo contesto calendariale. Al momento di una giga a quattro, osservo che ballerini giovani e anziani non fanno il passo di balletto come lo faccio io o come lo vedo fare altrove. Se riprendo la formulazione di Ilaria Demori "Pumm tac tac", vedo che Giggi e gli altri fanno i "tac tac" con tutti e due i piedi al suolo, mentre correntemente i "tac tac" si fanno in appoggio su un solo piede. È una variazione locale oppure non ho osservato altri ballerini a sufficienza per notarlo altrove? Non so. Mi stupiscono queste giovani ballerine del Connio con le loro scarpe dai tacchi alti. Io sarei ben impacciata con dei tacchi per ballare. Osservo variazioni di passi o di figure anche per altre danze. E la penultima danza è il perigordino. Una danza per due uomini e quattro donne. L'avevo già vista su Internet ed era già ballata dallo stesso Giggi, al quale mi sembra che piaccia avere del pubblico. Questa sera il pubblico sono io, e c'è anche la macchina fotografica di Claudio, che fa dei video per il sito internet "Dove comincia l'Appennino". Filma, a turno, il gruppo di Giggi e il gruppo dei sei ballerini giovani che imitano i primi. L'insieme è commovente, sto assistendo in diretta alla trasmissione naturale di una danza tradizionale, e per me significa davvero molto. Arriva l'ultima danza: una polca. Giggi viene a invitarmi a ballare. Arrivederci ballo e gente del Connio, se sapeste tutto quello che avete dato alla "ballerina francese". Buona notte.
Oggi vado alla festa paesana di Negruzzo. Mi piace pronunciare questo nome: si può arrotare la erre, e ci si sente italiana a dire una parola del genere. Mi sono resa conto che nelle Quattro Province, in questa stagione, ci sono feste anche nei giorni feriali. Queste manifestazioni potrebbero corrispondere alle nostre vecchie assemblee di paese che si svolgevano, in alcuni casi, il giorno della festa del santo patrono della chiesa del villaggio. Obiettivo del giorno: Varzi-Negruzzo in autostop. Obiettivo raggiunto. Non ho camminato neanche cinque minuti. Di fatto è tutta questione di fiducia in sé stessi. A coprire l'ultimo tratto è Elena, di Cegni. Fin dalle sue prime parole mi spiega che lei abita sempre a Cegni. Resta in paese d'inverno. Capisco che questa precisazione è importante, che un abitante che rimane in montagna d'inverno possiede volontà e merito. Elena parcheggia l'auto un bel po' prima di arrivare a Negruzzo. Ci fermiamo lì perché è l'ultimo punto nel quale è facile fare inversione. Di lì vado a piedi insieme a lei e alla sua amica. Sul bordo della strada vedo dei mucchi di ramaglie ben ordinati. Mi spiega che sono stati fatti da qualcuno che verrà a recuperarli in séguito, per l'inverno. Arriviamo al paese verso l'una. Appena arrivati vedo un uomo con una casacca di sicurezza gialla fosforescente che indirizza le auto, e poco lontano c'è una serie di bagni semovibili. Questi dettagli mi dicono che sto arrivando a una festa rodata all'organizzazione, alla gestione di un pubblico numeroso. È la ventisettesima edizione. C'è un sole a picco, ma adesso sono capace di sopportare e apprezzare il caldo.
Il paese è tutto in pendenza, lo trovo divertente, non sono abituata. Vedo dovunque gente che mangia, a destra e a sinistra, su tavoli piazzati in tutto il paese. Saluto Stefano Valla che fa parte dei suonatori del giorno. In questo periodo lui e Daniele infilano un ballo dopo l'altro tutti i giorni. Chiedendogli se fa fatica, mi risponde semplicemente «È la mia vita». In questo ristorante a cielo aperto e sparso, faccio quello che fanno tutti: mangio! Per la ristorazione c'è un'organizzazione eccezionale. Si ordina, si paga, si prende posto e poi sei servito da un team dinamico con una maglietta sulla cui schiena è scritto "Negruzzo". Per il mio menù evito la trippa che non mi piace, e scelgo dei ravioli, chiaramente.
Dopo mangiato visito, giro e rigiro per Negruzzo. Tutte le case sembrano svuotate dei loro abitanti, che sono nel cuore del borgo. Immagino che la gente che non abita più qui, ma che ne è originaria, sia tornata per la tradizionale Festa sull'aia. Ecco che sento il suono del piffero e della fisarmonica, è l'inizio del giro del paese, lo aspettavo con impazienza. I suonatori del giorno, ossia tre coppie di piffero e fisarmonica, suonano di viuzza in viuzza. La strettezza delle vie tra le case permette un'acustica ottima, il suono si riflette bene. È emozionante seguire questo corteo e farne parte. I suonatori si fermano nelle aie o nei passaggi indicati. È facile: quando c'è fuori un tavolo con delle torte fatte in casa e del vino, bisogna fermarsi. Il pubblico mangia, beve, balla un po'. Anche se credo che le vivande siano offerte in primo luogo ai suonatori, per ringraziarli, mi sembra evidente che loro non le consumino, perché stanno suonando. Il giro del paese è un'esperienza calorosa in cui ognuno offre agli altri, è un momento di generosità. Ci sono soste in cui non è più la musica ad essere agli onori bensì il canto tradizionale. Da sei a otto cantori, che possono essere i suonatori, la gente del paese o i visitatori, si dispongono in cerchio, spalla contro spalla, e cantano in polifonia dietro a un cantore che lancia le strofe. Uno dei cantori, qui Stefano, sembra regolare l'altezza del canto facendo dei piccoli segni ad alcuni. Io mi piazzo dietro la loro schiena, ben vicina, per percepire le vibrazioni sonore. C'è un'interruzione musicale che avviene nella casa di una signora anziana.
Poi, ritorno nella piazza principale. Ma si può in effetti chiamare questo spazio piazza principale? Capisco dove avrà luogo il ballo di stasera, e ancora una volta è piccolo se lo si confronta ai nostri spazi di danza francesi. Questo è all'aperto. Quando i suonatori arrivano dal loro giro del paese c'è un momento molto interessante: mettono in discussione il palco installato dal comune per la loro prestazione della sera. Ma sì, è chiaro che questa pedana sopraelevata di due metri non può andare. Ci vuole il palchetto abituale perché suonatori e ballerini siano a contatto. Allora i giovani preparano il palchetto, quello che di sicuro è sempre stato usato per l'occasione. Ma l'iniziativa degli organizzatori servirà comunque stasera per il discorso del sindaco e i ringraziamenti ufficiali, là in alto è il posto migliore. Arriva l'ora dell'estrazione della lotteria. Ce n'era una anche l'altra sera a Cegni. Tutti si siedono per terra, come se si aspettasse un grande spettacolo, e vi assicuro: questa lotteria di Negruzzo è un grande show comico. Due animatori, microfono in mano, fanno l'estrazione e la consegna dei premi. Ci sono in palio svariati salami, del vino, una bicicletta e un bacio dell'animatore, un ragazzo alto sottile sottile che si fa passare per una donna di nome Cindy! Anche se non capisco l'italiano è molto buffo, un vero show.
Ed è di nuovo ora di mangiare, stavolta niente ravioli ma due macedonie che mi bastano e avanzano. Al mio tavolo si parla francese. Nel ballo, un cavaliere con cui ho ballato una polca e a cui ho detto che sono francese mi fa ballare una mazurca francese di ultima generazione. Io che non ne ho mai ballate in Francia, eccomi a ballarne una a Negruzzo! Mi adatto. Per il ballo lo spazio è sempre pieno, ci sono molti ballerini. Le coppie di suonatori si susseguono e per la maggior parte li conosco per la prima volta. Stasera sono particolarmente colpita dall'interpretazione di Marco. E ora che lo vedo suonare, con la sua custodia del piffero sulle ginocchia, mi ricordo di lui. L'avevo visto al festival del Grand bal de l'Europe. Osservo che sul grande manifesto arancione fosforescente della festa di Negruzzo i suonatori sono presentati solamente con il loro nome: Stefano, Daniele, Marco, Matteo (il giovane sentito a Pian del Poggio), Ettore e un più enigmatico "Buscajen". Sul sito avevo visto che alcuni suonatori hanno un soprannome. Anche in Francia si danno dei soprannomi a certe persone, ma sono più che altro gli altri che li utilizzano, per parlare della persona quando non è presente. Qui sembra che il soprannome si sostituisca proprio al nome. Non so per quale motivo. Prima di andarmene dal paese, passo davanti a una sala in cui si trovano gli organizzatori. Lavorano e cantano in coro. La loro canzone me ne ricorda una di Mike Brant [cantante crooner degli anni Settanta in Francia] ma interpretata in stile Quattro Province, e la cosa mi fa ridere!
Per colazione mi sono abituata alle brioche italiane molto zuccherate e sempre ripiene di marmellata, e la signora si è abituata a servirmi un caffè americano. Questa domenica mattina Varzi è di nuovo in piena effervescenza: c'è una festa con cavalli da fiera, un mercatino e molta gente. Io oggi vado al ballo a Vésimo, un paese ancora più lontano di Pian del Poggio, e sempre in autostop. Alle undici sono sul ponte di Varzi. È un ottimo punto per gli autostoppisti. Data l'affluenza, a Varzi la circolazione è fitta e molto lenta. Nonostante tutte queste condizioni favorevoli le auto non si fermano. È perché sul mio foglio con la destinazione ho indicato "Vesimo", e da qui deve sembrare lontano, credo che questo nome non sia neanche conosciuto. Cambio e scrivo "Casanova", e ohp, in meno di un minuto sono in macchina. Mi fanno scendere, cammino per venti metri ed è Michele, un pensionato che ha tempo, che mi porta fino a Pian del Poggio. Quando gli dico che il giorno prima ero a Negruzzo mi guarda con un'espressione golosa e mi dice indicando la bocca con la mano: «buona pasta!». Sì, mi pare evidente che le feste paesane siano rinomate per la qualità dei loro menù quanto per quella dei suonatori. È strano ritrovarmi a Pian del Poggio quattro giorni dopo. La prima volta erano le sei di sera, faceva freddo, scendevano la nebbia e il buio, ero stanca; ora è mezzogiorno di domenica, in pieno sole e questo paese è ben più allegro. Come dire, è importante non fermarsi a una sola impressione. Un secondo autista, poi cammino un po' su questa strada che mi avvicina progressivamente a Vesimo. Gli scorci sono molto belli e mi rendono contenta. Mentre mi dico che sono proprio fortunata ad essere lì, sento il motore di un'auto. Si ferma, e non ho bisogno del commissario Maigret per capire qual è la professione del conducente. In effetti l'indizio principale è sotto i miei occhi, sul sedile: un camice bianco. Sì, è il parroco che torna a casa dopo la messa. Don Enzo è molto gentile, chiacchieriamo e mi porta più avanti della sua destinazione. Completo il percorso a piedi e godo di questo momento. Avrei finito per rifiutare il prossimo autista!
L'una, eccomi a Vesimo con un panorama superbo. È molto attraente questo paese con le sue case dai tetti di ciappe, sono le prime che vedo. È un paese piccolissimo: sì, un altro! Quanti abitanti può avere? E in questo angolo sperduto della montagna, è incredibile ma c'è un ristorante, ed è pieno. Aspetto qualche istante quindi vengo indirizzata nella sala interna. Mi siedo a tavola e lì i miei vicini mi riconoscono come la francese che era al ballo del Connio! Dopo un pasto pantagruelico, e una grappina abilmente imposta dal cuoco, chiedo a che ora è il ballo: le nove. A me, che pensavo fosse di pomeriggio, non resta che approfittare di questo tempo libero per riposarmi. Ci sono delle sdraio sul terrazzo, allora... "far niente". Ma un odore forte mi impedisce di sonnecchiare. Dopo qualche secondo di ricerca, capisco di essere di fianco alla cantina per il formaggio: ecco perché odora così forte! Mi sposto, e il pomeriggio trascorre tranquillamente. I lavoranti preparano il terrazzo per la cena e il ballo, sistemano cannicci, trasportano casse di bevande. Anche qui si percepisce la consuetudine, questo ballo è una tradizione.
Cinque e mezza, il sole è meno forte e parto per l'esplorazione di questo paese seducente con una via bassa e un passaggio alto. Livio con cui avevo ballato al Connio è arrivato per la cena, e insieme rifacciamo un giro del paese. Mi spiega, sempre in italiano, la tragica storia del paese: un bombardamento fatale per la popolazione di Vesimo. Mi lascia per andare a mangiare la polenta ma io, con tutto quello che il ristoratore mi ha fatto mangiare a mezzogiorno, stasera non ho fame. Credo di aver visto in una piccola aia il paiolo e il manico di legno per preparare la polenta. Il ristorante è pieno da scoppiare. All'esterno è tutto così quieto. Cambio la mia gonna per un paio di pantaloni, metto un maglione e mi piazzo vicino alla fontana. Tramonta il sole a Vesimo. Dall'altro lato della via abita una signora anziana, sento la sua televisione. Il padrone del ristorante, grembiule bianco in vita, viene da lei con un piatto, dev'essere polenta. Tutti sono parte della festa in questo giorno che commemora il bombardamento. Il tempo passa gradevolmente ed è ora di raggiungere Livio e i suoi amici, è la fine della cena. C'è un gruppetto di uomini e donne che cantano. Il canto, come il salame, i ravioli, la polenta, il vino, la musica e i «bravi!», fanno parte della festa. C'è una delle canterine che ha una potenza sonora davvero impressionante, e con che naturalezza emette il suo canto.
Il ballo è sistemato sulla terrazza coperta: Franco alla fisarmonica e Gabriele al piffero e al flautino. Come doveroso nelle Quattro Province, sono appollaiati sopra un tavolo. E indovinate dov'è collocato il tavolo? Proprio davanti alla cantina del formaggio! Trovo sia un peccato che la loro musica sia amplificata. Di fatto la pista da ballo è così piccola che la musica in acustico avrebbe potuto bastare e dare un tono ancor più caloroso a questo ballo. Molti visi ora mi sono familiari. Qui, come nell'ambiente folk francese, si ritrovano spesso le stesse persone. L'atmosfera è eccellente, mi piace questo posto, le sedie di legno tutt'attorno, la cameriera di stamattina che balla. Mi invitano spesso a ballare, discuto con alcuni, a modo mio perché in cinque giorni non ho certo imparato l'italiano! Via, mi lancio: inviterò questo signore che non balla mai quando c'è una polca. Accetta ma mi avverte che lui non saltella perché è di un'altra valle. Metto da parte questa informazione e cercherò in séguito di trovare spiegazioni sull'eventualità di stili diversi a seconda delle valli. I pifferai si susseguono, dal dilettante al più esperto, ognuno al suo posto. Quest'idea di dare a tutti un'occasione di esibirsi in pubblico, per far ballare, mi piace. Le arie suonate stasera mi sembrano più variate di quelle che ho sentito finora, forse Franco ha un repertorio diverso. Eccolo che suona un paso doble. In questo caso si tratta di repertorio musette, liscio come viene chiamato qui. E stasera i ballerini di povera donna sono Teresa e Livio. Lui che pochi istanti fa si lamentava delle sue gambe stanche, eccolo tutto scalpitante dopo questa danza tradizionale di carnevale. Che la povera donna abbia delle virtù nascoste? Bisognerebbe avviare uno studio sull'argomento. Questo è il mio ultimo ballo nelle Quattro Province.
Vado a dormire un'ultima volta sotto la protezione dei miei due suonatori nella foto sul muro della camera.
Véronique Blot
traduzione di Claudio Gnoli
Viaggio di una francese nelle Quattro Province : o L'incontro di Véronique Blot con la tradizione vivente = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori — <http://www.appennino4p.it/voyage.htm> : 2011.01 -