Cosa fare di questo patrimonio immenso che è giunto fino ai nostri giorni, materialmente e attraverso la cultura orale?
Le possibilità sono due, che cercherò di esemplificare: la prima, comportarsi come coloro che appendono ai muri delle tavernette vecchi oggetti, reperti di tempi passati, nella convinzione che basti ricordare, in chiave folcloristica, la cultura del nostro territorio attivando, miseramente, il solo meccanismo della nostalgia. Altra possibilità, la seconda, trattare questo materiale in modo scientifico, nella convinzione che lo studio sistematico e la ricerca possano fornire nuove conoscenze e arricchire la nostra cultura. [...]
Se, da una presenza millenaria, togliamo la cultura classica, quella medioevale, le influenze rinascimentali e quelle illuministiche, cosa rimane? Canti e racconti popolari, immagini votive e cassapanche decorate, misteri e farse, testi di ballate e libretti popolari, e poi feste, quelle delle stagioni e dei santi, il Natale, Carnevale, Maggio... che la tradizione ha fatto giungere sino a noi.
La cultura popolare è stata spesso contrastata, basti pensare, in tempi recenti, al fastidio dei dialetti che male si adattava al modello neoclassico fascista, o, più indietro nel tempo, i vari riformatori che cercarono di cancellare o di ridimensionare tutte quelle manifestazioni che contrastavano con la cultura dominante. [...] Il nuovo avanzerà in modo conflittuale, cancellando una visione del mondo che era fortemente legata a ritualità antichissime.
(Giorgio "Getto" Viarengo, Siam venuti a cantar maggio:
paesaggio etno-musicale nel territorio del Tigullio, 2a ed., Pane e vino, Chiavari 2004)
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