Si è già trattato su queste pagine digitali dell'importanza del sale come merce di scambio nell'Appennino delle Quattro Province e dei percorsi commerciali che vi si erano sviluppati intorno.
Focalizzeremo ora l'attenzione su una specifica area che si trova interamente in territorio piacentino: è infatti storicamente documentata la presenza di diverse fonti di acque salse e/o con proprietà termali a cavallo della confluenza tra i fiumi Aveto e Trebbia fino alla limitrofa zona di Bobbio.
Il territorio in esame ha rappresentato il primo nucleo di espansione del noto monastero fondato nell'anno 614 da san Colombano, sotto la protezione dei sovrani longobardi Agilulfo e Teodolinda. Le acque termali in sponda destra del Trebbia erano già conosciute e sfruttate. Il primo concessionario risulta essere il duca Sundrarit, ma già nel 622, re Adaloaldo concedeva a sant'Attala, che era succeduto nel 615 a Colombano nel ruolo di abate, metà del diritto di sfruttamento sulla salina di Piancasale. Alla caduta del regno longobardo (774), il cenobio divenne titolare dell'intera concessione.
L'acqua di Piancasale aveva proprietà salso-bromo-iodiche e venne utilizzata dapprima per la produzione di sale alimentare, poi a partire dalla fine del XIX secolo a fini terapeutici; in un primo momento (1896) venne impiantato un embrionale centro termale per volontà del marchese Obizzo Landi, poi (1927) una società locale istituì uno stabilimento vero e proprio, chiamato Bagni Sant'Ambrogio. La struttura rimase attiva per circa un ventennio con discreti risultati, poi lo scavo di una galleria compromise la sorgente, tanto che i Bagni furono progressivamente abbandonati.
La fonte del territorio bobbiese che ha conosciuto maggior fama in tempi recenti è quella detta di San Martino il cui sfruttamento ha origini molto antiche. Nel 1904 iniziò la costruzione dello stabilimento termale da parte della società Bobbio-Azzali-Renati & C., che si concluse con successo nel 1927. Purtroppo, già nel 1930 il cantiere per la costruzione della centrale idroelettrica di San Salvatore (mai ultimata) sconvolse il sottosuolo locale, provocando l'inaridimento della fonte che alimentava le terme. L'impianto rimase così in stato di degrado fino al 1962, quando Antonio Renati avviò i lavori per l'attivazione di un nuovo edificio termale, che fu inaugurato nel 1971 e rimase aperto fino al 1994. Successivi e reiterati progetti per la riapertura non hanno avuto seguito, anche perché uno studio del 2018 ha rivelato la presenza di batteri e gas metano che renderebbero insalubri le acque delle terme.
In prossimità delle fonti di San Martino esisteva in passato una fontana di acqua ferruginosa, chiamata "dei Ragazzi", impiegata saltuariamente a scopi terapeutici. Nel 2023, nelle vicinanze delle terme, è stata aperta al pubblico per uso gratuito una vasca termale alimentata da una fonte secondaria, addotta dal rio Foino.
I succitati lavori per la centralina di San Salvatore si rivelarono fatali anche per la limitrofa fonte magnesiaca di Canneto. Si trattava in realtà di due distinte sorgenti, dette di Canneto Inferiore e Superiore; la tradizione vuole che localmente esistesse nei pressi una località chiamata Salso (omonima della Villa Salso ora detta Salsominore, che si trova peraltro a pochi chilometri di distanza più a monte). Lo scavo della galleria fluviale che doveva servire come sfogo dell'invaso artificiale rese inutilizzabili le due fonti, le cui acque ora si mischiano a quelle del Trebbia.
In territorio bobbiese, infine, merita una menzione la cosiddetta cascata termale del Carlone. Il Carlone è un torrente che scorre dal passo della Scaparina e si getta in Trebbia nei pressi di Bobbio. Le due sponde della valletta sono occupate da due località che ospitarono altrettante celle bobbiesi fondate nelle primissime fasi di espansione del monastero colombaniano: Moglia e San Cristoforo. Nella parte mediana del suo corso, il torrente disegna alcune cascate: una di esse intercetta una fonte sulfurea, ben riconoscibile all'olfatto nei pressi del laghetto sottostante. La tradizione locale, non supportata da documenti scritti, vuole che le acque della cascata termale fornissero ai monaci di San Cristoforo la materia prima per confezionare pomate e medicamenti contro le malattie della pelle.
La rivista Medicamenta, nel 1908, elenca ulteriori fonti, chiamate di Confiente e del Monte delle Saline, delle quali però non sono disponibili notizie più dettagliate.
A monte del territorio bobbiese si trova un'altra area ricca di acque dalle proprietà salsoiodiche. Nei pressi della confluenza Aveto-Trebbia sono documentate almeno tre fonti.
Di una si è persa la memoria, per quanto riguarda la sua precisa collocazione geografica. Si tratta di una fonte che alimentava una salina che doveva avere una discreta importanza, dato che rientrava nei diritti feudali connessi al possesso del castello del Lago. Detta fortezza, oggi in stato di rudere, sorge su uno sperone dominante la confluenza e i relativi guadi. Non si hanno informazioni sulla sua costruzione, ma nel 1418 è registrato il passaggio di proprietà dai Malaspina ai Porri e poi da questi ai Balbi; nel 1420, questi ultimi cedettero ai Malaspina di Varzi il castello e i diritti di sfruttamento delle saline sottostanti. Abbandonato nel secolo successivo, dopo essere passato ai Dal Verme nel 1533, il piccolo fortilizio risulta già in rovina nel 1600, uscendo dalle cronache insieme alle "sue" saline.
Le altre due fonti sono ancora esistenti, anche se non più sfruttate per la produzione di sale. La prima si trova nel paese di Salsominore, in val d'Aveto. La località è di antica fondazione e non è escluso che la presenza di una importante vena d'acqua salsa abbia indotto i primitivi fondatori a insediarsi in una località di fondovalle così esposta alle piene del fiume. Nel 1926, nel corso di lavori di ristrutturazione dell'oratorio di Sant'Agostino, venne rinvenuta una lapide sepolcrale risalente al II secolo d.C. Attualmente murata sulla facciata, essa cita il locale duumviro Caio Sulpicio Rufo, appartenente alla gens Maecia – già presente a Libarna.
Della fonte, in particolare, il capitano Antonio Boccia scrive in questi termini:
"Salsominore è situato sulla ripa destra dell'Aveto e così chiamasi perché vi è una copiosa sorgente d'acqua salifera, della quale, ne' tempi andati, il Governo [del Ducato di Parma e Piacenza] ne traeva profitto; ma, dopo aver spogliati tutti que' monti di alberi, dovette abbandonarla e, ad oggetto che gli abitanti non se ne prevalessero, vi fece introdurre sotterraneamente una abbondante sorgente di acqua dolce, la quale unendosi colla salmastra, fatta l'evaporazione, rende poco meno del terzo dell'acqua ed io ne ho fatta l'esperienza. Il sale, che n'è risultato, ha l'odore e il sapore sulfureo bituminoso, cosa ingratissima".
Nonostante il "sabotaggio" della salina di Salsominore da parte dell'autorità governativa, la fonte non scomparve mai del tutto e fu utilizzata per la produzione domestica fino alla Seconda guerra mondiale. In tempi più recenti, nel centro storico del piccolo borgo sono state costruite due fontane in arenaria dalle quali sgorgano due vene distinte, entrambe salsoiodiche e ferruginose: la maggiore raccoglie le acque della più copiosa, ma dal gusto non più dolce. La più piccola ha invece un aroma decisamente salato e mantiene una temperatura costante di 20°, che la fa curiosamente fumare nei mesi freddi; a dispetto di queste caratteristiche, è praticamente inodore e rimane comunque potabile.
La seconda fonte si trova sempre sull'Aveto, ma ormai in vista della confluenza nel Trebbia, sotto la costa a valle tra Cerignale e Casale. La salina ivi esistente entra nelle cronache il 25 gennaio del 1637, allorché l'agente camerale di Ottone relazionava in termini sconsolati il principe Doria in Genova sulle condizioni in cui versava la valle dopo una serie di calamità naturali culminanti in una piena particolarmente intensa del fiume. Nella relazione si lamentava come rimanessero pochissimi uomini in Cerignale che conoscessero le tecniche di estrazione del sale, mentre la salina stessa risultava inservibile. Ne venne in compenso fornita un'accurata descrizione: il "casamento" era lungo 18 braccia, largo 14 e alto quanto un "uomo grande". Sotto il tetto vi erano due lavezzi o caldaie di rame, che tenevano in tutto 25 secchie di acqua, misura di Genova. In 24 ore si cavavano da 4 a 7 rubbi genovesi di sale (un rubbo corrispondeva a circa 7,9 kg), che reggeva al paragone "con quello marino di Sestri Levante" ed era di qualità superiore a quello prodotto nella vicina Salsominore.
Nonostante le condizioni disastrose in cui versava in quel del 1637, la salina venne comunque riattivata: nel 1759, infatti, il capitano Francesco Cella di Cerignale ebbe in gestione l'impianto per un periodo di nove anni. Interessante il fatto che il contratto prevedesse la totale esenzione del canone di affitto in cambio dell'impegno di riconsegnare, a scadenza, l'edificio riattato e perfettamente funzionante. Nel 1769, tuttavia, concluso il novennio, il capitano scrisse una memoria rivolta al principe dove descriveva una situazione drammatica: una serie di terribili alluvioni avevano sconvolto la valle, distruggendo la salina. Ne nacque una controversia, conclusa con la pretesa da parte del principe del rispetto delle clausole. Si procedette così ad una perizia sullo stato dell'edificio, il quale si rivelò effettivamente deteriorato al punto da rendere economicamente sconveniente il suo ripristino.
In seguito abbandonata, la salina venne dunque ricoperta da terra e detriti fluviali e rimase totalmente nascosta alla vista fino al 1998, quando una nuova, potente piena dell'Aveto la riportò alla luce: della struttura originaria sopravvivevano le due camere che alloggiavano le caldaie, alle quali si accedeva mediante due archi in pietra.
Ad oggi l'impianto risulta nuovamente interrato, tanto che non se ne potrebbe individuare neppure il sito, se la fonte non continuasse a bagnare la parete rocciosa con un'acqua scura e densa, dall'inconfondibile gusto salmastro. Nonostante la rovina della struttura, la popolazione di Cerignale continuò ad utilizzare l'acqua salsa per una piccola produzione domestica fino a tutti gli anni Quaranta del XX secolo; il sale veniva prodotto per uso famigliare direttamente nelle case del paese, trasportando l'acqua con dei secchi seguendo in gran parte quello che ora è chiamato Sentiero di Gaspare (SL14).
Teresa Andena, Le sorgenti termali nell'alta val Trebbia, in Strenna piacentina. 1998, a cura dell'Associazione artistica culturale piacentina
Carmen Artocchini, Castelli piacentini, TEP, Piacenza 1983
Giorgio Fiori, I Malaspina, TipLeCo, Piacenza 1995
Giorgio Fiori, Storia di Bobbio e delle famiglie bobbiesi, LIR, Piacenza 2015
Piero Castignoli, Una piena dell'Aveto disseppellisce dopo due secoli l'antica salina di Cerignale Val Trebbia, in Strenna piacentina. 1998, a cura dell'Associazione artistica culturale piacentina
Il registrum magnum del Comune di Piacenza, a cura di A. Corna - F. Ercole - A. Tallone, Giuffré, Milano 1984-1988
Fonti salse e acque termali fra Aveto e Trebbia = (Dove comincia l'Appennino) / Giacomo Turco ; © autori — <https://www.appennino4p.it/fonti.htm> : 2025.01 -