Tre categorie di cantanti
Innanzitutto grazie a Claudio Gnoli e Paolo Ferrari che mi hanno invitato qua dipingendomi come "cultore di canto tradizionale"; è un complimento, perché spesso vengo chiamato "ricercatore" o "etnografo": assolutamente non sono nulla di tutto ciò, o lo posso essere di conseguenza, non di certo come scelta aprioristica. Penso di essere un po' una via di mezzo tra quel che han detto Massimo Angelini e Giorgio Botta, che rivedo qua molto volentieri.
Massimo Angelini, perché anch'io mi son trovato come lui nato e immerso in una società in cui era normale, era quotidianità fare certe cose: lì ho imparato i canti e le musiche, ad eccezione del piffero che a casa mia non c'era, ma c'erano violini, clarinetti, fisarmoniche, chitarre, flauti di sambuco. Li ho imparati come conseguenza naturale di certe situazioni: si trebbiava, si vendemmiava e si cantava; si faceva una cena o un pranzo e si cantava. Era normale.
Dopodiché è arrivato il momento in cui, per passione già da allora (mi mancava e mi manca la materia prima, che è la voce, ma la passione c'era), ho cominciato a fare il discorso di Giorgio Botta: una "costruzione sistematica della memoria", che penso sia una frase molto bella che prenderò a prestito. Quindi, cercando di non cadere nella nostalgia, quello che ho fatto è sempre stato questo: registravo i canti non perché volessi fare il ricercatore, ma perché volevo imparare magari i soliti venti-trenta canti di un microcosmo che era l'Oltrepò pavese-Quattro Province (micro mica tanto), per poi sapere come l'attaccava questo, come la faceva quello, come la finiva quello, e confrontarli in famiglia. In famiglia dove avevo componenti provenienti da famiglie canterine di tanti paesi: Bogli, Varsaia, Massinigo, Montesegale.
A Voghera nell'osteria dei miei nonni, il ristorante Tram, per quindici anni tutte le squadre dell'Oltrepò pavese e delle alte valli si riunivano e cantavano, quando cantare in osteria, come mi diceva Bepi De Marzi, era un orgoglio, e quindi il cantante d'osteria cantava con l'orgoglio del cantare bene. Mi ricordo che avevo quattro o cinque anni e un mio cugino mi faceva arrampicare sulle finestre dell'osteria e mi diceva «guarda il papà che canta». Io vedevo... il fumo, cioè la nebbia causata proprio dai fumatori, una marea di cappelli dei contadini, degli arsadù, e in mezzo il gruppo che cantava. E c'era il silenzio assoluto, perché si stava ad ascoltare, e nel silenzio potevano cantare bene. Mio padre, Luciano Rolandi, diceva che non si può più cantare in osteria «perché si urla», «non c'è più chi canta bene» «perché devi urlare». Aveva ragione secondo me. Una cosa che si è persa nel canto popolare è proprio questa: c'è stato un po' un appiattimento, c'è molta approssimazione nel canto popolare, diceva mio padre.
Lui aveva dei canti bogliaschi (adesso non sto dicendo niente di quello che mi ero scritto...) che per lui erano altroché religiosi: "E se tu brami", "Lei mi voleva bene", "Dammi un riccio", "Splende la luna"; "Il delitto" no perché è arrivato nel '19 a Bogli, portato da un bogliese che era stato prigioniero a Roma, mentre mio bisnonno era emigrato nei primi anni del Novecento, sebbene mio padre l'abbia poi appreso a Voghera.
Prima che morisse mi son fatto insegnare questi canti, come: "il secondo deve fare queste cose", cioè ci sono punti in cui dev'essere melismatico, altri in cui deve scandire le parole: [canta] "O se tu brami o di...": lì devi temporeggiare, diceva il nonno: brami di fare che? di vedermi; cioè c'era un attenzione al testo e non solo all'urlare e al cantare per urlare. C'era il "moto delle parti" potrei dire in una maniera un po' accademica, che era sacro per il vero cantante popolare.
Mio padre un giorno mi disse "l'unico che sa ancora cantare in un certo modo è Pino di Barostro"; allora nel '93, durante una festa a Cencerate, misi attorno a un tavolo mio padre, il buon Cavalli, prima ancora delle "Voci del Lesima", e questa persona di Barostro, chiedendo loro di cantarmi determinate canzoni alla bogliasca, alla montanara, poiché come avete scritto anche voi nella pagina dedicata a Cavalli un po' in tutta la montagna si avevano certe abitudini musicali. In questa registrazione, di questi tre che non cantavano insieme da venti o trent'anni, la prima strofa è magia pura. Nel momento in cui hanno iniziato, tutti quelli che erano in osteria si son messi a fare il cosiddetto basso, voci libere. Io sostengo che le voci libere siano una cosa splendida, a volte però, come diceva mio padre, dovrebbero capire che se c'è qualcuno che ha qualcosa di artistico o di magico da dare è meglio che stiano zitte.
Effettivamente io ho già fatto tanti lavori, ma non ho in questo momento a disposizione le voci per fare certe cose; posso intanto scriverle... [«Non è facile scriverle...», interviene Gnoli.] Non è facile scriverle, comunque c'erano delle note target, eccetera.
C'erano canti più lirici, canti fermi in cui c'era questo moto delle parti, mentre ieri ho per quest'occasione ascoltato un canto molto diffuso, "Picchia picchia la porticella", che tutta l'Italia conosce e ormai si canta in modo un po' approssimativo. Mia nonna diceva «così si cantava in risaia [accenna]: "E picchia picchia la porticella..."». Ho questa registrazione del '68 in cui c'erano mio padre che faceva un basso cantabile alla Trio Universal genovese, un falsetto di Barostro e un tenore di Cegni, che è l'unico ancora vivo. Globalmente ogni strofa consegnava la forma del canto, ma in realtà ad ogni strofa questi due tenori cambiavano completamente il moto delle parti, prima per terze, poi per seste, poi il primo scendeva sotto al secondo... Una cosa splendida: il basso variava arpeggi e note tenute, insomma in un canto scontatissimo un piccolo compendio di canto tradizionale.
Ecco io continuerò a fare le mie analisi sui soliti canti, ma a me piace così [Giorgio Botta e Getto Viarengo dal pubblico approvano, sottolineando come questa sia ricostruzione della memoria e non nostalgia] per non perdere quei pochi aspetti magici artistici che c'erano anche nel nostro canto popolare.
Come il dialetto. Io a Massinigo penso di essere uno dei più giovani che sa parlare correntemente il dialetto; per passione ho iniziato a 14 anni, cioè 23 anni fa, a scrivere delle vecchie parole. Quest'estate alcuni ottantenni o novantenni mi hanno giustificato l'esistenza di quelle parole, perché i sessantenni non se le ricordavano più. Chiaro: ad esempio mia madre ha la pronuncia, io non posso avere l'ambizione di dire «lo so parlare» come chi c'è nato dentro; però a volte la ricerca è importante come il vivere la situazione volutamente e non solo passivamente.
Come ho detto correggendo alcune traduzioni delle homepage del sito, con tre parole i contadini dicevano tutto. L'unica licenza che ho permesso di tenere è Apenain. Non è mai esistita la parola Appennini: li chiamavano monti, e le Alpi montagne della neve. Se non si aveva un verbo si usava il vebo cosare: cozlo, cozl'un po, uno doveva capire cosa voleva, dire come i puffi dicevano puffare.
Penso di aver detto tutto; sono d'accordo con Mauro Balma per la tradizione sacra. Tre categorie di cantanti: quelli che cantavano in chiesa e che quando cantavano le canzoni profane erano cui bon 'd cantà; c'erano gli urlatori, mio nonno era uno di quelli, che animavano le feste, i carnevali; e poi c'erano le voci libere, che non erano amate da chi sapeva cantare ma forse era l'unico modo in cui attraverso il canto ognuno poteva dare il proprio contributo. Quindi penso sia importante fare lavori su tutte e tre gli ambiti.
Paolo Rolandi