Dove comincia l'Appennino

Glossario dei maggi


I testi dei canti di questua in uso tra la Pasqua e l’inizio di maggio nelle Quattro Province e zone vicine tramandano il linguaggio della vita rurale dell’Appennino. Molte strofe vengono cantate a memoria senza riflettere sul loro significato originario, che invece può rivelare scorci di stili di vita. Soffermiamoci sulle parole più rivelatrici che ricorrono nelle versioni del canto nelle diverse località.


Alburen
chi ch’l’è sta bela fija | ch’l’è nsima dl’alburen?” (Casalcermelli ⇗)
Arbusto, presumibilmente fiorito, che nella zona veniva tagliato e sovrastato da una bambola vestita a festa come una sposa: il tutto era trasportato dai bambini sul carretto (tuttora in uso) col quale si raccolgono le offerte della questua. Si noti che nei dialetti settentrionali l'albra, femminile, è il pioppo bianco, l'erbu in area ligure è il castagno, mentre per indicare genericamente gli alberi si dice sempre e piante.


Auzéi
ch’i m'on dicc i vostr’ auzéi che n'èi dir cesti peini” (Casalcermelli, a Pasqua ⇗)
Vicini di casa, o abitanti di una cascina confinante come è spesso il caso negli insediamenti sparsi dell’agro alessandrino. Il senso di questa e simili strofe è che i cantori sanno bene, anche grazie alle informazioni appena avute dai vicini, che i padroni dispongono di uova in abbondanza (“ne avete delle ceste piene”, la gallina “son tre giorni che canta”, ecc.), e quindi non hanno scuse per offrirne anche a loro.


Bucalen
tira föra u bucalen | dà da beiv ai cantaren” (Marsaglia ⇗)
Boccale per servire del vino.


Bucion
ma se rüva i cantaren | u vervrà on bucion d’ ven” (Ferriere ⇗)
Il vino, più che in bottiglie, è spesso conservato in damigiane e bottiglioni, detti anche papon specialmente se dotati di tappo in sughero, butilion se con tappo a molla, o piston come nel canto che si è perso a Pianello Val Tidone (“un sentì ciucà i piston: | l'è par segn a gh'è el ven bon”).


Bügada
“e tutte le donne i faran la so bügada” (Trevozzo ⇗)
Il grande bucato primaverile nel quale si lavavano con sapone e cenere i vestiti sporchi accantonati durante la stagione fredda; allo scioglimento delle nevi si poteva sfruttare l’acqua portata dai rii e la “fresca rugiada”, per poi farlo asciugare col “solin di maggio”; cfr. Morselli 2006.


Bunèivere
o caru me Giacu che t’è tantu bunèivere | pòrtene in po da beje” (S. Stefano ⇗)
Uomo bravo e cortese, benevolo; è stato ipotizzato che derivi dal latino bonus vir.


Calin di maggio
gh’è chì il Ca(r)lin di maggio con l’erba e con la foglia” (Marsaglia ⇗)
Il calendimaggio, dal latino calenda maia “il primo giorno di maggio”, è il nome delle antiche feste pagane celebrate appunto all’inizio del mese. Talvolta è pronunciato inserendo una erre che lo fa sembrare personificato in un Carlo, così come è personificato Carnevale in molte filastrocche (“Carlevà l’è andà a Vughera”...).


Cavagna
“metti la scala alla capanna | e dammene una cavagna” (Cicogni ⇗ )
Cesta, usata per contenere le uova da dare ai questuanti, come in questo caso, oppure portata con sé da questi ultime per raccoglierne dai diversi abitanti. Il senso è la richiesta di un’offerta abbondante, allo stesso modo di “öve dèi zü a vot a vot”, “alla ventina” ecc.


Ciar
“un sentì ciucà i cuciar: | la patrona la pisa al ciar” (Pianello Val Tidone ⇗)
La luce, che nella sera di vigilia della festività viene accesa dalla padrona per accogliere i canterini, come si canta anche a Casalcermelli (“l'ha sentì cantè sunè e l'ha viscà lo chiaro”).


Coccolino
“un coccolino della vostra ciccia” (S. Maria di Bobbio)
Ovetto di gallina.


Costiola
“trecento costiole abbiamo attraversato” (Anzola ⇗)
Il territorio delle valli appenniniche è accidentato e spesso caratterizzato da vallette separate da piccoli crinali, detti localmente coste o custiö’. I cantori in passato si spostavano a piedi anche per distanze piuttosto lunghe, che il testo enfatizza per suscitare negli abitanti premura e muoverli a un’offerta ristoratrice.


Crapaja
e dal büz de la crapaja | a patrona si l’é in pataja (Marsaglia ⇗)
Fenditura, presumibilmente della porta di casa magari in legno, attraverso la quale i canterini sbirciano in casa e vedono che la padrona non è vestita per accoglierli. E’ forse una strofa da cantare agli abitanti che sono stati trovati impreparati alla visita dei maggianti.


Criansa
“suma quàter giuvanen, suma sensa criansa” (Casalcermelli, a Pasqua)
Buona educazione. I canterini ammettono i loro modi rustici e se ne scusano per ingraziarsi comunque i padroni di casa in nome della tradizione (“second a cm’é l’üzansa”).


Cucco
“canta lo cucco e l’usignolo ardito” (S. Stefano ⇗)
Il cuculo, uno degli uccelli il cui canto caratteristico è associato all’arrivo della bella stagione.


Fà föra
e na micca e na rübiöla la faríssam föra” (Romagnese ⇗)
Consumare interamente. Nel testo il verbo è al condizionale, come osservò Giorgia Monfasani: i canterini si dichiarano pronti a far onore a eventuali offerte di pane e formaggio senza lasciare avanzi.


Galante
gh’è chì ‘l galante | della vostra galina griza (Romagnese ⇗)
In molte ballate ha il senso di gentiluomo che incontra o corteggia una ragazza; in questo caso l’interlocutore è una gallina, sicché il corteggiatore e portatore di fecondità primaverile dovrebbe essere un gallo. Effettivamente è testimoniato per Biassa (SP) l'uso di portare un gallo vivo in una gabbia appesa all'albero del maggio [G. Rezasco, Giornale ligustico, 13: 1886, p. 114] e una pratica del genere sopravviverebbe in Abruzzo oltre che come quarto premio del Palio di Asti: il testo potrebbe quindi tradire che ciò avvenisse in passato anche da noi, forse per incoraggiare un accoppiamento rituale simbolico della nuova stagione.


Galina griza
gh’è chì ‘l galante | della vostra galina griza (Romagnese ⇗)
Dal verso di apertura ha preso il nome l’intera questua delle uova a Romagnese, a Cicogni ed anche a Pianello Val Tidone dove ormai si è trasformata in una fiera commerciale. Che il canto inneggi proprio a una gallina dal piumaggio grigio potrebbe essere dovuto al fatto che una razza grigia fosse localmente considerata rara e pregiata, tanto che nella zona di Pietra de' Giorgi galena griza è usato come appellativo per una ragazza speciale. Peraltro il canto prosegue affermando che ci si accontenterebbe anche di altri colori: “èla nera, èla bianca: püra che la canta”, e nel canto di Casalcermelli alla strofa per la gallina grigia ne sono affiancate altre per quelle bianca, rossa e per “ra galinëtta neigra”, che rimano ciascuna con una frase di circostanza. Le razze ufficiali italiane di galline sono circa 125, e nel mondo oltre 500.


Giuliettare
“maggio giulietta ancora, capo di primavera” (Mareto ⇗)
Verbo dal senso incomprensibile anche ai canterini attuali, che tuttavia lo mantengono perché così è stato loro insegnato; potrebbe essere la deformazione di un termine precedente, come ad esempio “cinguetta”.


Lendu
ch’an daga j övi frëschi e ai lendi ai lassa stè” (Casalcermelli ⇗)
Si tratta delle uova vecchie che una volta aperte si rivelano marce, e sarebbero un omaggio ben poco gradito dai canterini.


Martello
in co de l’orto gh’è fiorì ‘l martello (Romagnese ⇗)
Marté è l’arbusto del bosso, che produce delle infiorescenze biancastre. Il termine dialettale è forse legato alla durezza del suo legno, che è perciò utilizzato per costruire strumenti musicali compresi i pifferi e le muse.


Micca
e na micca e na rübiöla la faríssam föra” (Romagnese ⇗)
Nome regionale di una forma di pane: pagnotta; diffuso anche il miccone, da affettare e spesso abbinare al salame.


Parniza
“la parniza la fa cicì” (Farini ⇗)
Pernice, nome di diverse specie di galliformi selvatici presenti nell’Appennino come la pernice rossa, la coturnice e la starna. Emettono pigolii ma anche delle grida rumorose e improvvise, meno poetiche dell’onomatopea “cicì”.


Pataja
Mandè föra a vossa fiöra | in pataja e in camizöra” (Marsaglia ⇗)
Camicia, presumbilmente da notte nel caso delle donne che venivano svegliate dal passaggio del gruppo di canterini.


Pei vignö’
guarda suta u pei vignö’ | ch’a ghe canta u russignö’” (Marsaglia ⇗)
Varietà di pero che veniva piantato lungo i filari delle vigne, come era uso con diverse piante da frutto; potrebbe corrispondere al cultivar detto pero volpino.


Pisadù
tira föra u pisadù | dà da beiv ai sunadù” (Marsaglia ⇗)
In base al contesto è riferito al bottiglione da cui versare il vino o alla scodella condivisa da cui berlo; in altri contesti significa pene o orinatoio.


Piuvid
prégum al signor che tüt il matein | el manda al piùvid in dal vos galein(Pianello Val Tidone ⇗)
Pipita o difterovaiolo aviare: malattia virale delle galline che si manifesta con la formazione di una pellicola bianca sulla lingua. La strofa è tra quelle da cantare in caso di mancata accoglienza ai canterini, che nella piccola economia basata sull'allevamento rappresentava una maledizione assai pesante per le fortune della famiglia.


Pontì
“vansev in sul pontì | ch’a vedrè maggio fiorì (Mareto ⇗)
Ballatoio di legno al primo piano delle case, sul quale i padroni sono invitati ad affacciarsi per rendersi conto del circostante trionfo della primavera.


Pügnà
“ti starà più bene la tua moglie al fianco | che na pügnà de oru” (S. Stefano ⇗)
Una manciata, che anche se consistesse in monete d’oro non basterebbe ad esprimere il valore della padrona di casa.


Riviera
“guarda gli uccelli che van per la riviera” (Marsaglia ⇗)
Rio, corso d’acqua e sua sponda; cfr. l’inglese river “fiume”. A Tornarezza si usa la variante peschiera, che indica una grande vasca di raccolta delle acque per vari usi.


Rübiöla
e una micca e una rübiöla la farissam föra” (Romagnese ⇗)
Forma di formaggio: secondo il sito Formaggio.it, la ribiola o furmai nis è un "formaggio grasso, di breve stagionatura, a pasta molle spalmabile" e "piuttosto aromatico" che è "prodotto in provincia di Piacenza con latte di pecora" ma "si trova con molta difficoltà". Il termine nissu è usato nella zona anche per il formaggio colonizzato da larve di insetto simile al casu martzu sardo e corso.


Scosaren
l’è dré mets’ u scosaren, | dà da bev ai cantaren” (Marsaglia ⇗)
Grembiule legato in vita, capo di abbigliamento più adeguato per presentarsi ai visitatori che quelli indossati durante la notte.


Séghere
in co de l’orto gh’è fiorì la séghere” (Romagnese ⇗)
Segale, cereale povero coltivato per il pane o come mangime per gli animali. Ne esistono una varietà invernale e una estiva adatta alle zone montuose, a cui sembra riferirsi il testo.


Süza
Süza süza e gentil galante… oppure: gh’è chì ‘l galante… (Romagnese ⇗)
Alcuni abitanti della zona di Romagnese ritengono che questo termine indicasse la padrona di casa, accompagnata dal marito (galante nel senso di gentiluomo). Tuttavia, generalmente nei dialetti dell’area il termine è inteso invece come “su, orsù”, e sarebbe quindi l’esortazione ad alzarsi dal letto per accogliere i cantori. Gentil galante è un’espressione formulaica che potrebbe essere stata importata dalle ballate in cui spesso ricorre.


Teina
vardei inte la canteina | se gh’é una grossa teina” (Anzola ⇗)
Tino che conteneva il mosto d’uva, il cui contenuto è evidentemente interessante per i canterini una volta fermentato in vino.


Tramescà
“ho sentüd a tramescà, | la padrona l’a s’è levà” (Marsaglia ⇗)
Armeggiare; evidentemente la voce dei canterini ha svegliato la padrona di casa che si deve perciò essere alzata e sta preparando qualcosa per loro prima di apparire sull’uscio.


Venì
“bello vingh’ ohi maggio” (Marsaglia, Ferriere ⇗)
Insolita costruzione al congiuntivo, che in Italia centrale è espressa in italiano: “ben venga maggio”, mentre qui è complicata dall’interiezione formulaica “ohi”. I cantori evocano l’arrivo del mese primaverile come aiutandolo con il loro canto ad arrivare, come nelle Alpi il primo marzo si “chiama” l’erba. Un’altra ipotesi è che si tratti di una deformazione di “bell’ovin di maggio”; ma essa è contraddetta dalla forma viengh'ohi maggio in uso a Tornarezza.


Vessa
in co de l’orto gh’è fiorì la vessa” (Romagnese ⇗)
Veccia, un legume usato come foraggio, in passato coltivato comunemente.


Zdela
l’ha sentì ciucà la zdela: | la sposa la si fa bela” (Cicogni ⇗)
Secchio in metallo, che venendo urtato induce la giovane padrona a pensare che i canterini stiano arrivando e quindi ad acconciarsi per accoglierli. Sentì ciucà la zdela significa anche perdere la testa, essere sulle nuvole o fare di tutto per conquistare un'altra persona tralasciando altre cose e non sentendo ragioni.


fotografie di Giacomo Turco; lemmi a cura di Claudio Gnoli
con la collaborazione di Davide Bazzini, Gianni Borin, Rinaldo Doro, Massimo Gerosa, Claudio Lanza, Paolo Rolandi, Laura Zambianchi

 


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