Un sabato di primavera del 2004, Paolo Ferrari Magà e Claudio Gnoli sono andati a Menconìco, in valle Staffora, a intervistare il pifferaio Roberto Ferrari. Era presente anche il suonatore di musa Fabio Zanforlin, che con Roberto ha condiviso numerose ricerche ed esperienze musicali. Quella che segue è la trascrizione dell'intervista, volutamente resa in uno stile colloquiale il più possibile fedele all'originale.
Roberto: «Io avevo meno di dieci anni. Mio padre era appassionato di questa musica, e si è trovato al bar a San Martino e c'era quello di Pej, Tambussi, che faceva i pifferi, che cercava la cera per i pifferi; e allora gli ha chiesto: "Quanto costa? Me ne fai uno?" Lo ha fatto dopo 15 giorni, me l'ha portato e mio padre ha provato, ma ha detto "io non suonerò mai". Poi ho provato io: mi mettevo sul balcone davanti a casa, facevo versi terribili che scappavano gli animali.
Poi un giorno è passato di qua Giacinto Callegari, fisarmonicista di Vallechiara che suonava con Ernesto Sala. "Cosa stai facendo?" mi chiede... Poi ha cominciato a vernirmi a trovare. Dopo di lui è venuto a saperlo Silvio Tagliani, "Silva", che faceva l'orologiaio e tutti i venerdì veniva giù a Varzi a comprare i pezzi per gli orologi e si fermava qui, passava il pomeriggio. Io tengo a precisare: ancora adesso io la musica la so e non la so leggere. Silva mi insegnava canzoni che suonava Giolitti, me le faceva e io andavo dietro... Morale della favola: ho messo su due o tre pezzi.
Poi è venuto a saperlo Giampaolo Tambussi: "vieni giù, proviamo un po'". Era un po' più giovane, avevo più confidenza. Un giorno viene giù, mi fa: dobbiamo andare a fare una cena, mangiano le turdele -- in italiano le cesene, le prendono sotto le pietre: tendono un sasso con sotto una bacca di ginepro, loro vanno lì e... infatti c'è il detto rimanere sotto la ciappa. Facciamo quattro o cinque suonate, ci siamo un po' esaltati. Era il '78-'79, suonava ancora Ernesto, ma io non l'avevo mai sentito anche se abito a dieci chilometri, d'altra parte ero un ragazzino.
A Bosmenso facevano la cena con il capretto: "venite, vi dò cinquantamila lire". Lì c'era uno della val Curone: "dovete venire a Bregni..." Insomma c'era tanta richiesta, e c'era Bani che era già più bravo di me, poi c'era Ernesto Sala che ancora non aveva avuto l'infarto, sarà stato il '79. Poi ci chiamavano qua e là, avevo 10-12 anni; allora i soldi in tasca erano pochi, non è che l'ho fatto per i soldi, però faceva piacere... Una volta c'era Ernesto che suonava, e allora ho chiesto a mio padre: "papà, mi porti, non mi porti?...". È stata una cosa troppo bella!
Il problema grosso è stato sempre quello delle ance. Questo Giovanni me le faceva: "portami un musotto!", "eh! sono stanco di fare le ance", diceva... Poi prova mio padre, poi salta fuori che a Bobbio c'è un certo _ che era anche amico di Bani, che fa le ance e allora mio padre mi ha portato un sabato pomeriggio; mi ha fatto vedere, taglia, fai... Per andare da lui a imparare dovevo prendere la corriera, andare a Ponte Organasco, poi andare a Bobbio, poi la sera c'era la corriera che da Bobbio andava a Varzi, e lì veniva a prendermi mio padre!
Il primo piffero che ho suonato è stato quello di Tambussi; non faceva dei gran pifferi, gli è venuta l'idea però li faceva con il trapano a mano... Poi c'era Giovanni Agnelli, morto giovane, che faceva dei bei pifferi...
La gente ci apprezzava perché c'era carenza, e poi noi costavamo il pranzo, mentre Ernesto costava i suoi soldi. Noi non andavamo alle feste da ballo, andavamo alle cene; con il piffero di Agnelli abbiamo cominciato ad andare un po' meglio. In pubblico con Silva non ho mai suonato, ho suonato con Giampaolo Tambussi e poi con Elio Buscaglia che è venuto dopo i primi anni '80. Poi al carnevale bianco di Cegni ho conosciuto Stefano Valla, e Bani, con un piffero che andava un po' meglio di quello di Agnelli; mi ha fatto vedere un sistema per fare le ance con le canne da sax. Poi c'erano le cassette registrate di Ernesto fatte dagli appassionati... non sono quelle di Pianta, sono precedenti. Ho conosciuto Elio Buscaglia, 41 anni, io ne ho 39. Ricordo che nell'86 il mese di agosto ho suonato 32 volte. Un paio di domeniche ho suonato in tre posti; la gente ci chiamava.
Poi voglio dire che le feste di allora erano diverse: c'era la gente del posto, adesso la gente sulle feste è cambiata; son poche le persone anziane... Ricordo le feste in val Curone, in val Borbera, le feste a Fabbrica. Erano ancora un proseguimento di quello che c'era prima, non era folk revival o altre cose. A volte, non sempre, sembra di voler a tutti i costi far rivivere qualcosa. Forse perché ho visto quelle feste là; la gente ti telefonava perché senza pifferi il matrimonio non si fa... Vedevi che la gente partecipava perché era giusto partecipare, non erano forzate le situazioni -- e non ti parlo di secoli fa, ma di vent'anni. La cosa strana è che anche la gente dei nostri posti non apprezza più: quello che mi lascia male è che adesso sono più i giovani a frequentare queste feste, c'è stato un buco in mezzo delle persone che hanno sui cinquanta-sessanta anni.»
Fabio: «È stato il periodo in cui si affermavano nuovi modelli culturali.»
Paolo: «Quando è stato il momento in cui hai avvertito di fare un salto di qualità?»
Roberto: «È stato graduale, li faccio ancora. È andata a finire così: suonando con Elio, che era uno molto volonteroso, siamo arrivati al punto del boom del mio suonare, che si è interrotto quando sono andato a militare. Quando sono tornato ho dovuto lavorare per un anno o due, e poi per tre o quattro anni ho detto a Elio: "io non suono più", e mi sono un po' rovinato la piazza. Nel frattempo sono arrivati Stefano Valla, Bani, Stefanino, ma sono contento anche se vanno avanti gli altri. Poi anche Elio ha cominciato a lavorare in proprio, poi mi sono detto: "ma gli anni più belli erano quando suonavo!", ho trovato Claudio Rolandi e ho ricominciato.
Il discorso "musa" è nato quando ho conosciuto Elio Buscaglia, nel frattempo abbiamo conosciuto Aurelio Citelli, Giuliano Grasso e Febo Guizzi che aveva fatto degli studi sulla musa e ne aveva comperata una che era di Predaglia, Pragaja.»
Fabio: «Era il periodo che c'era tempo, andavamo a scuola, il problema più grosso era andare fino a un certo punto e poi tornare indietro... Abbiamo cominciato a girare in tutte le soffite della val Curone... Al bar di Gregassi uno ci fa: "io c'ho una musa"... "Veniamo su a trovarti!", "venite pure". Partiamo, andiamo su: botte sulla porta, nessuno apre... guardiamo dalla finestra: era là con il bottiglione sul tavolo! Poi a furia di picchiare ci apre: "ma siete venuti davvero? sedetevi...", ci ha dato da bere. "L'altro giorno sono andato in soffitta: tütt carö́...". Lui l'ha detto per darsi importanza, per far vedere che aveva una musa, poi ha inventato quella scusa, perché la musa in realtà non l'ha mai avuta.
Poi cerca di qui, cerca di là, abbiamo ottenuto queste misure. La musa di Guizzi aveva forse dei problemi al bordone, perché aveva una scala... Secondo me i pifferi non suonavano con questa tonalità perché la musa secondo me quando l'hanno smessa hanno fatto qualche modifica ai pifferi per adattarla; anche la nostra ha dei problemi, noi l'abbiamo ricostruita. Poi c'era il problema del legno: il bosso, che legno è il bosso? Il "martello", ah, quando ci hanno detto che era quello delle siepi, non so se si può dire, ma siamo stati cuccati in una villa al Brallo...
Poi abbiamo trovato un amico che ci ha portato dei pezzi e abbiamo cominciato a lavorarli; non sapevamo neanche cosa fare, ci basavamo su quello che ci dicevano Bani e altri, poi qualcosa è uscito, che è quello che si sta suonando, con i difetti che ha. Bisognerebbe mettersi lì e lavorarci sopra. Abbiamo ricostruito questa musa, che il problema grosso era il sacco. A quel punto abbiamo conosciuto Valter Biella: "il sacco non c'è problema", andiamo a casa sua; ma anche lui stava sperimentando, si parla dell''84-'85, anche lui stava lavorando e infatti ci ha fatto una sacca con gomma da canotto e Bostik: va benissimo, funzionava. Poi sono cominciati i problemi sulle ance, faceva condensa, dopo un po' non ha più tenuto e si è aperta. Poi il nostro ciabattino di fiducia ci fa la sacca, la fa cucire: funziona benissimo, con la pelle delle tomaie cucite e lì riesce, non suda...
Una volta si usava la pelle della capra, il procedimento era la concia della pelle. Prima si bolliva la pelle in una pentola di acqua e corteccia di castagno, che contiene tannino, poi si metteva nella calce viva e la si lasciava lì un paio di giorni, poi si metteva sotto sale, dopo di che la pelle era pronta per essere usata: era conciata in modo da non marcire. Non abbiamo tentato questa via perché non ha molto significato, la sacca fondamentalmente è un contenitore d'aria che deve funzionare, ci vuole un materiale che assorba la condensa.
Il problema grosso della musa era: e adesso come la suoniamo? La memoria più interessante è stata quella della nipote di un vecchio suonatore, Creidöra, i nipoti avevano un bar-ristorante: ci ha detto due o tre cose, per esempio che la musa la tarlinghè, non suonava come il piffero, nel senso che secondo lei non faceva il controcanto, la stessa melodia a una terza sotto, ma un accompagnamento come la fisarmonica. Poi ci ha detto che a suo nonno si bucava sempre la sacca perché era vecchia, e lui smontava tutti i tubi, prendeva una nocciola e la fissava con uno spago al buco della sacca. Secondo me questi strumenti suonavano più bassi una volta, e poi con l'avvento della fisa hanno dovuto adattarsi.»
Roberto: «La storia del Grixu è così. Lui era capace di riparare gli strumenti per la banda, con questo tornio ricavato dal volano di una macchina. Fatto sta che a Uscio Jacmon è andato a suonare e il Grixu si è appassionato a questa musica, e Jacmon gli ha detto: "ma tu ripari gli strumenti: fammi dei pifferi che te li faccio vendere!". E a questo punto il primo lavoro è diventato l'altro. Secondo me il Grixu sulle muse non ha lavorato tanto, e tante muse recuperate dal Grixu non le ha fatte neanche lui, ma sono cose che gli hanno portato da copiare. I chanter da musa variano di tre o quattro centimetri di lunghezza l'uno dall'altro. Secondo me quelli di Cantalupo non avevano il la, il diapason. Loro facevano un piffero e una musa e li accordavano tra loro e suonavano sempre tra loro. Io sono arrivato a questa conclusione: quando vendevano, vendevano a coppia. Recentemente è stata trovata a Torino una musa e un piffero costruiti dal Grixu che dovevano partire per l'America; a un'asta chiedevano 10 milioni, e ho visto la scatoletta delle ance, "musetta di Cicagna": ance della musa di Cicagna!»
Fabio: «Abbiamo iniziato a proporre la musa quando c'era l'occasione giusta; se ti presentavi nei primi anni Ottanta con la musa... dicevano che eravamo degli zampognari. La maggior parte anche adesso se gli dici cos'è una musa non lo sa, i bambini vanno a casa dai genitori e i nonni, ma i nonni stessi non sanno dargli risposta, perché loro stessi non hanno conosciuto questa realtà. Gli ultimi ricordi risalgono agli anni Venti-Trenta, ma se non c'era la fisarmonica non staremmo qui a parlare di pifferi.»
Roberto: «La fortuna di Jacmon è stata quella di aver saputo anticipare i tempi. Ha capito che con la fisa poteva ancora fare qualcosa, la famosa vicenda che si sono incontrati a Capanne di Cosola... Tutto questo periodo ha cancellato la memoria della musa, e anche oggi proporla al pubblico si fa fatica perché non è nell'orecchio. Bisognerebbe avere strumenti anche con sonorità diverse, senti una cabrette, una musette, come sentire piffero e bombarda, o sei un amatore e allora... Mia mamma mi ha detto più di una volta: "non suonare più il piffero, sembri una persona di 50 anni, vai in discoteca!"»
Roberto: «Poi arriva Claudio Rolandi dal liscio, poi con la Pro loco abbiamo ricominciato; con Claudio è stato un po' per scherzo e si facevano le feste tra amici per divertirci e la passione ce l'hai... Ha imparato prima i balli da liscio che quelli tradizionali. Il discorso delle monferrine... in quegli ambienti tradizionali, dopo una monferrina volevano i valzer, possiamo dire che un venti per cento sapeva ballare il ballo saltato, poi in zone come Connio ballavano veramente bene questi balli: al Connio di Carrega Gigi, un ballerino, è uno che sa delle cose interessanti. Secondo me il modo migliore per ballare i balli vecchi è il loro, loro sono più originali, non c'è nessuna aggiunta. Gigi ha sempre criticato il ballo di Cegni come quelli di Cegni criticavano quelli di là, anche Andrea Sala. Il ballo se esiste ancora, se lo sappiamo noi, lo dobbiamo a Andrea Sala, perché nel bene e nel male, col suo modo di fare... Sia io che Stefano [Valla] facevamo parte dei ballerini di Cegni, Stefano aveva smesso un anno prima di ballare nei ballerini di Cegni, poi abbiamo appreso anche da altri, perché c'era quello che diceva una cosa, chi ne diceva un'altra, e così via. Fabio: «È una sfida, ma lavorando assieme su più fronti, pian piano qualcosa si può fare. La tradizione è viva nella radice; alla gente della zona, se gli fai sentire che c'è qualcosa di loro, rispondono. Non è solo la musica, è un popolo che ha una sua identità» Roberto: «Io ho visto gente che se ne è sempre fregata dei pifferi eccetera, ma quando sono arrivati da Milano hanno drizzato le antenne. Ma dovevate aspettare che venivano da Milano per capire certe cose?!» Paolo: «Tu già compari nel libro "Pavia e il suo territorio" come informatore con brani eseguiti da te. Come è stata questa esperienza?» Roberto: «Io le informazioni le ho date tramite Citelli, che ha registrato a Dova Superiore...» Fabio: «Lì ho visto un perigurdino a schiera che non ho mai più visto. Adesso c'è un po' la moda di ballare tutti allo stesso modo...» Roberto: «Mi ricordo che lui aveva proposto questi brani, qualcosa registrato nella zona di Romagnese. Il materiale e le notizie che abbiamo recuperato allora erano la fonte; si andava a trovare le persone, come si deve fare per fare documentazione. Quando si tornava a suonare, o il giorno dopo, certi ti davano anche registrazioni; abbiamo sbobinato dai gelosi con rumori assurdi. Su quattro o cinque ne trovavi magari una diversa da quelle conosciute, e le notizie le apprendevamo dalle persone che partecipavano alle feste, perché quelli che suonavano non c'erano più a parte Ernesto che tutte le volte che vedeva qualcuno che suonava il piffero gli abbaiava dietro: "non siete capaci, non siete capaci!"... Era geloso del suo suono.» Fabio: «I primi tornati qui con una musa costruita sono stati i "Baraban", che hanno suonato una volta a Cegni; poi abbiamo suonato noi, poi adesso tutti pensano di avere scoperto l'acqua calda, ma se non ci fosse stato qualcuno che ce lo inculcavava da piccoli anche noi avremmo lasciato perdere. I vari gruppi di suonatori hanno seminato sul territorio; Stefano Valla ha fatto anche un lavoro più grande degli altri, perché ha insegnato anche ad altri a suonare. Se non veniva fuori che Stefano, abitando a Cegni, è ripartito, per le sue vie è ripartito, il Bani per altre strade è ripartito... I primi anni, quando c'erano le feste, tutti suonavano assieme. Poi è nato il discorso delle coppie di suonatori; al Carnevale bianco ci si trovava tutti assieme. La fortuna è stata quella di trovare quelle due-tre persone che hanno fatto un po' da substrato, e spero che ne nascano altre ed è giusto che vengano avanti dei giovani e che ci studino sopra...» Sono stato in America: è stata una delle cose più belle che ho fatto, perché la realtà americana non è proprio quella che fan vedere. Io ho visto che gli ebrei stanno con gli ebrei, gli irlandesi con gli irlandesi, e ci sono interi quartieri abitati da italiani; c'è un quartiere a Detroit che sono tutti italiani e quello che ci ha fatto arrivare era un emigrato della val Curone, che poi è morto per un infarto a 45 anni. Ci ha sentiti in quegli anni che io e Elio suonavamo tanto e ci ha fatto suonare in questo club dei "piemontesi". In Canada, a Toronto, c'era il fratello di questo e da lì siamo andati anche a Toronto; ho visto gente piangere quando sentiva suonare il piffero; erano tutti gente emigrata nell'ultima emigrazione, dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando essere emigrati in America era anche un vanto. La maggior parte era della val Curone e della val Borbera e avevano questo grande ricordo di Ernesto. Ci scarrozzavano su questi macchinoni...» Roberto: «Io se devo mettere al numero uno un suonatore vecchio, metto Ernesto Sala. C'è chi mette al numero uno Jacmòn, ma di lui si ha una cassetta molto veloce che se la rallenti assomiglia molto a Ernesto. A me piacerebbe fare il suono che faceva Ernesto, ma non ci riesco, ci provo. Se devo dare un giudizio sui suonatori attuali faccio il nome di una persona che voi non avete mai sentito suonare, che assomiglia più al suono che io sento nel sangue: è Fabrizio Ferrari.
Fabrizio gli insegnavo io, poi l'allievo ha superato il maestro. Se hai sentito le cassette di Ernesto: acciaccature, trilli, il masticato, ci sono tutte nel modo di suonare di Fabrizio. Poi, nella vita, uno si sposa, il lavoro... per fare il suonatore bisogna avere tempo.
Adesso si suona più veloce, prima più lentamente; se vai a suonare a Carrega, Connio, Cartasegna, quei posti lì, se suoni più veloce di tanto così ti strillano. Adesso si suona veloce, tanti suonatori hanno imparato a suonare veloce, è più bello, però non è il suono che era allora: senti le cassette di Ernesto, senti che c'è un altro ritmo, anche il fisarmonicista gli va dietro con un altro ritmo. Io non penso che nel mondo bisogna suonare come loro per forza, però bisogna seguire queste cose, è una traccia, perché se suonavano così un motivo c'era, perché la tradizione era quella: io metto come mito Ernesto Sala. A me il suono di Stefano [Valla] piace più adesso che cinque anni fa, perché ha rallentato.
intervista raccolta da Paolo Ferrari Magà e Claudio Gnoli
Il piffero di Menconico = (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori -- <https://www.appennino4p.it/menconico.htm> : 2004.06 - 2007.04 -
Le nostre ricchezze
Io tengo a precisare che per me suonare bene è importante, ma la cosa più importante è voler bene alla propria terra. Io quando vado in un posto, e c'è qualcun altro che suona il piffero, a me si allarga il cuore. In un posto devi lavorare su quello che hai, su quello che c'è di buono: il salame buono, i pifferi, la gente che canta, hai una tradizione da tavola come una tradizione storica; la gente bisogna anche farglielo capire, fare i lavori nelle scuole, cercare di far capire ai bambini, ai genitori. A me nessuno è venuto a dire queste cose, mi hanno raccontato tutta la storia del mondo, ma di quello che c'è qui da noi nessuno mi ha raccontato mai niente. Io non voglio che la gente di qua vada tutte le sere a sentire i pifferi, ma che abbiano la consapevolezza della cosa; ma la colpa è che nessuno gliel'ha mai detto. Parlavamo di Via del Sale: io ho visto dei posti che neanche in Trentino... C'è gente che abita qui e non sa che dietro il monte che vede tutte le mattine c'è un posto così bello.»
Menconico e il mondo
Roberto: «Agostino Orsi, me lo ricordo perché mia madre è di quei paesi lì, poi Centi, uno di Fabbrica... Agli Agnelli ha insegnato Fiorentino Azzaretti che andava a suonare a Costiere, il Rosso e il Giuvanen avevano l'osteria e Fiorentino Lagè suonava là, e anche il Giolitti di Colleri. Erano molto diversi nella zona del Brallo da quelli di Cegni, forse facevano più valzer e i piacentini moderni, avendo imparato da quelli, facevano cose più così. Anche in Liguria hanno trovato pifferi, gira la voce che hanno trovato anche pifferi più lunghi [vero: a Montoggio, in alta valle Scrivia].
Roberto, Fabio: «Noi abbiamo un gruppo di ballerini molto bravi. Siamo tutta gente che purtroppo ci tocca anche lavorare, per cui si fa quel che si può fare: c'è la passione, ci sono questi elementi che ballano e suonano, e di conseguenza quando abbiamo l'opportunità e l'occasione di proporci e andare in giro a suonare lo facciamo, con uno spirito più di divertimento che di lavoro. Non è l'impegno, si cerca sempre di fare il meglio, ma non siamo il gruppo che deve girare il mondo a tutti i costi. Noi sappiamo fare questo: ci hanno chiamato in giro per il mondo: Francia, Svizzera, Polonia, ma manca la disponibilità. Adesso dobbiamo andare ad Aosta. È una cosa che facciamo prima di tutto per noi: interessa a noi far vedere ad altri le nostre tradizioni, ma lo facciamo più per noi, perché ci divertiamo, siamo sempre stati amici fin da piccoli; poi io e lui abbiamo fatto qualche ricerca in più, poi c'è un gruppo che ha seguito quello che noi abbiamo fatto, per interesse e con spontaneità. Siamo quattro-cinque coppie, si cerca sempre di fare le cose bene; abbiamo un affiatamento nel ballo che non abbiamo neanche bisogno di provare, ma nel suono è un po' diverso... tutti noi ce la mettiamo tutta. Noi siamo i "Suonatori e ballerini di Menconico", siamo tutti di Menconico. A volte ci siamo chiamati con il nome latino "Mons Conicus", che poi è il Penice.»
Lo stile di Ernesto
Non è importante fare cento note o mille in una suonata, l'importante è il suono, che sia bello, puro, squillante, fatto nella maniera giusta. Non è importante essere bravissimi a muovere le dita, secondo me è bello che la melodia sia quella giusta. Forse non mi sono spiegato: non dico che uno che ha tanta tecnica non è capace di suonare, perché la tecnica è sempre una bella cosa, però prima della tecnica ci vuole l'espressione, è questo che volevo dire. Ernesto Sala aveva un'espressione che non ce l'ha più nessuno -- ti dico: di tutti quelli che ho sentito è Fabrizio che più si avvicina a questa espressione; io ci provo, purtroppo ognuno fa quello che può... Ti dico, vorrei riuscire a somigliare a Ernesto Sala, però fa delle cose... perché tu non devi sentire la successione delle note, devi sentire questo masticare il musotto, che è una cosa complicatissima da fare. Io ho sentito persone che mi hanno detto che Ernesto Sala non era capace di suonare, gli ho detto: "ma voi siete matti!" Gente, ma ascoltatelo Ernesto Sala, è un suono diverso. Gianfranco Brignoli "Barbetta" era un altro che ci ha provato e lo stava facendo, e suonava bene... poi lui ha smesso, ha avuto problemi di lavoro e salute e ha dovuto abbandonare. Se tu senti un sol di Ernesto già è sufficiente: non voglio sentire cinquecento note perché non mi interessano.