Un ingenuo giovanotto di Montacuto [paese dell'alta val Curone] cercava moglie, e chiese al prete di consigliargli una brava ragazza per lui. "Ah, ho io la ragazza che fa per te!" rispose il prete: gli presentò una giovane di Musigliano [altro paese della valle], i due si conobbero e presto si sposarono.
Ma solo tre mesi dopo il matrimonio, la giovane partorì! Il giovanotto
allora andò dal prete per protestare: era quella la brava ragazza
che gli aveva consigliato?! Il prete, non sapendo come cavarsela, indicando
un libro di chiesa in latino si informò:
"E t' bon da leze?"
"No..."
"E alura leza chi: "Òm ad Munteigu, dòna ad
Müsian, dopu tri mez i fan" "
[Sei capace di leggere? - No... - Allora leggi qui: "Uomo di Montacuto,
donna di Musigliano, dopo tre mesi li fanno."]
Il giovanotto in un primo momento ne fu colpito: in effetti, se era scritto sui libri sacri... Ma, ripensandoci, più tardi tornò alla carica: "Padre, sarà scritto dove vuole, ma insomma io lo so bene, che le donne ci mettono nove mesi per fare dei figli!..." E il prete allora: "Uhm, hai detto che non sai leggere, vero? Ecco guarda, leggi qui:"
"Setémber, setembrei, ar mez ch' u s' cava ar vei:
i son tri;
utúber, cucúber, ar mez ch' u sa scrava i rúvar:
i son sez;
ar mez ch' a suma, ar mez ch' anduma, ar mez pasà: i son növ...
sa vöt ch' a gh' cacia a fa, na dòna?!"
[Settembre, settembrino, il mese in cui si stappa il vino: sono tre;
ottobre, coccobre, il mese in cui si sfrondano le querce: sono sei;
il mese in cui siamo, il mese prossimo, il mese scorso: sono nove...
quanto credi che impieghi per arrivare a partorire, una donna?!]
"...Eh gia, u gh' à razon... gh' eru mía
stà sura!"
"Ah, par cul lí preòcupat no: a gh' son stà
sura mi!..."
[Eh già, ha ragione: non c'ero stato sopra (a pensare)! - Ah,
per quello non ti preoccupare: ci sono stato sopra io!...]
Lo stesso arguto prete di cui sopra, don Emilio, parroco di Montacuto negli anni Cinquanta, raccontava anche quest'altra storia. Un uomo del paese, emigrato come molti altri in America per trovare lavoro, spediva al paese del denaro indicando di usarlo per comprare lussuosi arredi sacri per la sua chiesa; ma il parroco riteneva meglio adoperarlo per usi più prosaici. Quando morì, l'uomo fu riportato a Montacuto per essere seppellito nel paese natale. Durante la cerimonia funebre il sacerdote, aspergendo il feretro d'incenso con l'apposito calice, tra una frase liturgica in latino e l'altra avrebbe mormorato:
O pòver cujon, ti t'a s'cred ch'u sia d'or e inveci l'é ad luton... |
Oh povero scemo, |
Si noti la forma errata popolare lutou per utou, per il diffuso fenomeno di accorpamento dell'articolo.
Lo zio Dario era veterinario a Volpedo. Ogni tanto gli toccava visitare gli animali dei paesi dell'alta val Curone, per raggiungere i quali doveva compiere un viaggio all'epoca di diverse ore: qualcuno del paese allora lo ospitava per il pranzo.
Una volta, essendo in visita a Muncravò [Montecapraro],
avrebbe dovuto essere ospite a casa del parroco. Su istruzione del parroco,
la perpetua preparò un gran bel pollo, e si accinse quindi a servirlo
in tavola. Ma sul più bello si fermò sgomenta...
"Cosa c'è?"
"Signor parroco... l'è venerdí!"
Nell'eccitazione dell'avvenimento, tutti si erano dimenticati che essendo
venerdì, giorno del digiuno, non era consentito mangiare carne.
La situazione era imbarazzante, poiché d'altra parte rinunciare
alla portata avrebbe significato mancare di rispetto all'ospite.
Riflettendo rapidamente, il parroco si risolse a una soluzione, e si
mise a benedire il pollo con il segno della croce e le formule latine.
Mentre tutti lo guardavano interrogativi, concluse sentenziando:
"Mangè: l'è merlüs! [Mangiate: è
merluzzo!]"
Il vescovo di Tortona visitava i paesi dell'alta val Curone per amministrare la cresima. Dopo avere celebrato il sacramento a Montecapraro, aveva partecipato ad un pranzo con ricchezza di carne e di vino; ed ora doveva trasferirsi a Lunassi, scendendo verso il ponte sul Curone per una stretta stradina, accompagnato dai parroci della zona. A questo scopo, venne allestita una leza, ossia una di quelle slitte utilizzate solitamente per trasportare la legna tagliata nei boschi, alla quale furono attaccati due muli. Sopra la slitta, su alcune balle di paglia, fu fatto sedere il vescovo, protetto dal freddo autunnale con una coperta. Si trattava di una personalità importante: un tipo rubicondo e fresco, dalle mani delicate, bel rus, bel fresch, ch'u smiava un gugnen regian [bello rubizzo, dalla pelle fresca, che sembrava un maiale reggiano].
Il prete di Lunassi, rivolgendosi a Notu, il conducente della
slitta, conoscendo il tipo gli raccomandò:
"Bestèmia no, neh! [Non bestemmiare, eh!]"
Ma quegli obiettò: "Se nu bestèmio, i müi nu
van [Se non bestemmio, i muli non vanno]".
Il sacerdote risoluto insistette: "Ti t'dev no bestemià
[Tu, non devi bestemmiare]".
"No, no, i nu van: mi nu u fasu... ch'u guida
lu! [No, no, non vanno: io non lo faccio... piuttosto guidi lei!]"
"No, no: ti te dev guidà [No, no: tu devi guidare]."
"...N'asidente pösu dil? [...Un accidente almeno posso
dirlo?]"
Il prete concedette: "Sí, n'asidente t'pö dil
[Sì, un accidente puoi dirlo]."
E così, mentre il vistoso convoglio, formato dalla leza e
da tutti i preti che la accompagnavano, si avviava sulla fanghiglia della
strada, Notu bacchettava i muli gridando:
"Va là... va là... N'asidente... N'asidente a ti
e a chi te porti! [Va là... Un accidente a te e a chi
porti!]"
All'udire queste parole, i preti inorridirono... Fortunatamente il monsignore
non capiva il dialetto!
Santa Lucia ȧr pas d'una furmia, Pascuëta 'n' urëta. |
"Santa Lucia il passo d'una formica, Pasquetta un'oretta." |
A proposito del ritmo di crescita delle ore di luce con il procedere dell'anno. Santa Lucia prima della riforma del calendario cadeva intorno al solstizio d'inverno; "Pasquetta" è il giorno dell'Epifania.
Cuand che u sù u turna indré a gh'oma l'acua ai pé. |
Quando il sole torna indietro |
Durante i temporali, le apparenti schiarite sono spesso di breve durata.
Cuȧnd u tempural u vena da Sȧn Bastiȧu u n' piöva né incö́ né dmȧu, cuȧnd u vena da zü da Po péjȧ e val e mètȧl in co. |
Quando il temporale viene da San Sebastiano |
Detto della zona di Volpedo: le nuvole che preludono a pioggia non sono quelle provenienti dall'alta valle, ma quelle provenienti dalla pianura. Il vaglio, sorta di piatto usato per eliminare la pula dai ceci sfruttando la brezza dell'aria aperta, non poteva essere utilizzato in caso di brutto tempo.
A Castarnöv in cuàtȧr i mángen un öv e n'in vȧnsa ancú na ciapȧ ch'i la van a vend in piasȧ. |
"A Castelnuovo in quattro mangiano un uovo e ne avanzano ancora un pezzo che vanno a vendere in piazza." |
Sulla presunta avarizia degli abitanti di Castelnuovo Scrivia.
Cujou! Pȧr fa ȧr brod bou, u gh'uar di bei cȧpou! |
"Cretino! |
Díu na scȧmpa da u lȧmp e da u trou e dra rasa di Bidou! |
"Dio ci scampi dal lampo e dal tuono e dal clan dei Bidone!" |
Contro la famiglia Bidone di Volpedo; variante di un detto diffuso in altre località fino alla Liguria:
San Xenau e san Scimuŋ ne scampa da u lampu e da u truŋ, santa Vèrgine benedétta ne scampa da u lampu, da u truŋ e daa saétta! |
"San Gennaro e san Simone ci scampino dal lampo e dal tuono, santa Vergine benedetta ci scampi dal lampo, dal tuono e dal fulmine!" |
U var püsé un mat a ca sua che set savi a ca d'i àter. |
"Vale di più un matto a casa propria che sette savi a casa degli altri." |
"Giocare in casa" è sempre vantaggioso.
A prima zöbia d'avrí a verdüra a vena grosa cme un barí. |
Il primo giovedì d'aprile la verdura cresce grossa come un barile. |
"Giovedì" ha il senso di "settimana". Detto di San Sebastiano Curone.
Pü e corp u s'früstȧ pü l'ȧnmȧ a s'giüstȧ. |
"Più il corpo si deteriora più l'anima guarisce." |
Pü e corp u dvènta früstu pü e paternostro u dvènta giüstu. |
"Più il corpo si deteriora più il "Padre nostro" diventa giusto. |
Invecchiando, la gente si fa più incline alla religione. Versioni rispettivamente del tortonese e di Garbagna.
Temp e cü u fa cme ch'u vö lü. |
"Tempo e culo fanno come vogliono loro." |
Al tempo meteorologico, come all'intestino, non si può comandare. Detto tortonese.
Se t'ciap... / Set ciap... tri cüi e mez! |
Se ti prendo... / Sette chiappe... tre culi e mezzo! |
Scherzosa minaccia con un gioco di parole, diffuso anche in altre zone padane.
A bela de Turiggia tüti la vöŋ, nisciüŋ u la piggia. |
"La bella di Torriglia tutti la vogliono, nessuno la prende." |
Pare che una ragazza molto bella fosse vissuta a Torriglia parecchi decenni fa, e che il padre fosse talmente prudente nel vagliare i pretendenti, che infine restò zitella. Un detto simile è peraltro diffuso anche altrove.
Chi é ch'u zbàliȧ ȧr prim butou, u zbàliȧ tütȧ rȧ butunerȧ. |
"Chi sbaglia il primo bottone, sbaglia tutta la bottoniera." |
Se qualcosa si imposta male, se ne pagano le conseguenze fino alla fine.
Rùgar a u surí, castegn a l'inverní. |
"Roverelle a solatio, castagni a settentrione." |
Le due specie xerofila e sciafila più comuni nei boschi della collina e bassa montagna.
Uflé, uflé, uflé, ognidöi u so misté. |
"Offellaio, offellaio, offellaio, a ognuno il proprio mestiere." |
Offellaio è un pasticcere che produce offelle,
biscotti ovali tipici in particolare di Parona in Lomellina; di questo
detto esiste anche una versione milanese.
-- A vam a Vughérȧ? -- A fa, a fa? -- A mȧngià i grȧfiou. -- Cujou, cujou! |
"-- Andiamo a Voghera?... -- A fare che, a fare che? -- A mangiare i graffioni [ciliege]. -- Stupido, stupido!" |
Onomatopeico per il canto dell'usignolo.
Me papà, me mamà i m'an fat un vestinei curt curt curt: a móstar töt i ciap i ciap i ciap i ciap! |
Mio papà, mia mamma mi hanno fatto un vestitino corto corto corto: fa vedere tutte le chiappe le chiappe le chiappe le chiappe! |
Onomatopeico per il canto del fringuello/usignolo?.
Tratȧ, trȧtórȧ, la mamȧ l'é ȧndatȧ ȧ scörȧ, ȧr pȧpà l'é ȧndat ȧl bosch, l'à purtà ȧ ca nȧ mëcȧ e un os e unȧ ramȧ ȧd ṡanguinei pȧr bat ȧr cü ai so fiulei. |
Tratȧ, trȧtórȧ, la mamma è andata a scuola, il papà è andato al bosco, ha portato a casa un pane e un osso e un ramo di Cornus sanguinea per picchiare il sedere del suo bambino. |
Il primo verso è onomatopeico per il dondolare di una culla di legno.
A mȧdamȧ Trich e Trach lȧ lȧvurȧ ȧ fa i cȧlsët: s'a lȧvurȧ piȧnei a guȧdagnȧ un suldei, s'a lȧvurȧ un po püsé fort a guȧdagnȧ un sod. |
La signora Tric Trac lavora per fare i calzini: se lavora lentamente guadagna un soldino, se lavora un po' più velocemente guadagna un soldo. |
Trenta, quaranta, la pecora la canta, la canta ins'al murou, va ȧ ciamà al so padróu; so padróu l'é ȧ l'uspidal, va ȧ ciamà la padrona; la padrona l'é in giardéi a fa bȧlà ȧl cȧgnuléi: cagnuléi "bau bau" e la gatta "gnau gnau" e l'üzléi "cip cip", cantarûma mi e ti. |
Trenta, quaranta, la pecora canta, canta sopra il gelso, vai a chiamare il suo padrone; il suo padrone è all'ospedale, vai a chiamare la padrona; la padrona è in giardino a far ballare il cagnolino: cagnolino "bau bau" e la gatta "miau miau" e l'uccellino "cip cip", canteremo io e te. |
Trenta, quaranta, tutto 'l mondo canta, canta lo gallo, risponde la gallina, madama Tumasina s'affaccia alla finestra con tre corone in testa, con tre corone in man sulla porta di Milan, sulla porta di Tortona ch'ȧ pistavȧ l'erbȧ bonȧ, erbȧ bonȧ ben pistà, cuatȧr dòn int'unȧ stra: jönȧ ȧ cüzȧ, l'atrȧ ȧ tajȧ, l'atrȧ fa i capléi ȧd pajȧ, la pü belȧ fa l'amur, fa l'amur cu u siur dutur, siur dutur l'à fat lȧ süpȧ, lȧ so servȧ lȧ mȧngia tütȧ. |
... [in italiano] ... che pestava l'erba buona, erba buona ben pestata, quattro donne su una strada: una cuce, l'altra taglia, l'altra fa i cappellini di paglia, la più bella fa l'amore, fa l'amore con il signor dottore, il signor dottore ha fatto la zuppa, la sua serva la mangia tutta. |
"Ȧ m'lav rȧ faciȧ, unȧ balȧ e l'atrȧ...:
u gh'uar ȧncurȧ dez minüt."
"Ti lavti tüt i dü asemȧ, che ȧ t'risparmi
cencu minüt!"
"Mi lavo la faccia, una balla e l'altra...: ci vogliono ancora
dieci minuti."
"Tu lavatele tutte e due insieme, che così risparmi cinque
minuti!"
Lo zio Dario.
"Cul fiö lí l'é insí pülid, ch'u s'pudȧres, u s'cȧvȧres förȧ i büghé, e u s' dȧres na belȧ ȧrzintadȧ!"
"Quel ragazzo lì è così pulito che, se potesse, si tirerebbe fuori le viscere e ci si darebbe una bella risciacquata!"
Tita e Tatà, sorelle nubili di Castelnuovo Scrivia, a proposito del nipote Pippo.
"L'é rivà chí int'ra cöna, e l'é andà via vestí da spuz."
"E' arrivato qui nella culla, ed è andato via vestito da sposo."
Le stesse sul nipote Cesare, che visse a lungo con loro durante la giovinezza.
"Metí ra buca in piga par i aŋlot!"
"Mettete la bocca in piega per i ravioli!"
Le stesse ai nipoti, il giorno in cui avevano preparato i ghiotti ravioli per pranzo.
Sul fienile / Giuseppe Pellizza da Volpedo
Dialogo fra i genitori del pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo, Pietro Pellizza e Maddalena Cantù. Dalle rappresentazioni allestite nel 2001 a Volpedo in occasione del centenario della realizzazione del celebre quadro "Il quarto stato".
Madre: "U vö fa e pitur..."
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"Vuol fare il pittore..." "Che cosa vuol fare?..." "Il pittore. Lo dicono tutti in paese. Ha il dono..." "Eh, il dono... Io ho bisogno che lavori nei campi." "Ma lui è una persona delicata." "Eh, delicato, delicato... Io alla sua età..." "Lui è intelligente. Vuole andare a Milano..." "A Milano a far che?" "A imparare a dipingere." "Ancora a scuola?!" "Se questo è il suo destino, bisogna dargli una mano, bisogna aiutarlo..." "E va bene: se deve andare, che vada... Con tutta la fame che c'è in giro, vuol fare il pittore; e chi lo mantiene?... Noi bisogna che lavoriamo tutta la vita... Poteva stare bene... E' tutta roba sua... Come vive un pittore?!" "Vendendo i quadri... Lui è bravo, farà poca fatica. Ma ci vuole del tempo... Bisogna che facciamo tutti dei sacrifici! Io non voglio che si dica in giro che per colpa nostra il ragazzo non ha potuto fare quello che voleva; di colpa non ne voglio, io. Lui è fatto così: vuol fare il pittore... Che lo faccia: staremo a vedere." "Ma la gente in paese che cosa dirà... Che lo manteniamo a fare il fannullone..." "Ma che cosa vuoi che capiscano... E poi, dicano quello che vogliono: il figlio è nostro, tocca a noi decidere... Lui farà il pittore, quindi diamoci da fare." |
Storie e detti di val Curone (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori -- <https://www.appennino4p.it/storie.htm> : 2003.11 - 2007.04 -